Il post amore di Carlos Reygadas è una sorta di limbo in cui galleggiano i corpi e i sentimenti che li tengono uniti, o li separano. Non c’è scansione delle emozioni, ma un semplice lavorio esistenzialista all’opera sugli eventi, spesso indotti, che determinano la frattura nell’ordine stabilito delle cose: Nuestro tiempo (Venezia 75), ha segnato il suo ritorno alla regia a sei anni da Post Tenebras Lux, ha un po’ il sapore della liberazione del suo metodo in un filmare più puro e più immediato, di sicuro meno impostato secondo una predeterminazione logica e stilistica che agitava sul suo cinema lo spettro del dispositivo estetico.
L’incipit e l’intero primo movimento del film hanno lo scontornamento edenico del dialogo tra lo stato di natura e la struttura tribale, cosa che del resto disegnerà lo schema di tutto il film, incidendosi nella metafora dei tori da combattimento che, per quanto potenzialmente pesante, Reygadas riesce comunque a mantenere pulsante di una sua forza arcaica. Siamo infatti nella regione della Sierra Madre del Tlaxcala, in una fazenda in cui Juan, che è anche un poeta di livello internazionale, alleva tori da combattimento assieme alla moglie Esther. La famiglia gira in libertà, reticolato di figli, parenti, servitù, allevatori di tori, che si tiene insieme seguendo un’armonia naturale di ruoli, funzioni, affetti. Reygadas apre il film sul gioco acquatico dei bambini che si bagnano nel fiume limaccioso, intreccio di giovani corpi che si divertono. Dall’altra parte gli adulti, con Esther e Phil, l’addestratore di cavalli americano, che testano i tori da combattimento, e Juan che si occupa delle mandrie. La scena aperta su cui Reygadas basa il film è solo il punto di partenza di una dinamica che poi si spingerà nell’istinto destabilizzante di Juan: Lui coltiva il mito di una relazione aperta con Esther e la spinge tra le braccia di Phil, coinvolgendo sempre più il mandriano nella sua ossessione. Tutto il film segue questo declino sentimentale, la determinazione di un uomo a scrivere una storia d’amore da cui rimanere escluso, detenendone tuttavia il controllo.
Tra le maglie di questo gioco, in cui le relazione di potere e d’impotenza si scrivono come un copione, Reygadas incide una istintiva condensazione di elementi meramente figurativi eppure dotati di una forza eccezionale: materiali inferenti la narrazione, che spingono lo sguardo verso la contrapposizione tra natura e ragione, istinto e struttura, libertà e costrizione, seguendo spinte arcaiche, anche inconsce, puntellando l’insieme con frammenti di pura materialità filmica: la scena del concerto per timpano implode in una tensione disarmonica che non lascia scampo allo spettatore, così come gli squarci delle scene dedicate ai tori da combattimento – l’attacco al carro dei mandriani con lo sventramento del mulo, oppure le violente lotte tra i tori – si pongono con una evidenza anche simbolica che ha una verità tutta intima. L’intero film si definisce proprio in questa potenza spiazzante, in cui la struttura delle relazioni e la dinamica del filmabile agiscono seguendo una ratio di cui resta solo la traccia lontana. E’ come se Reygadas volesse lasciare libero il film di essere controllato dalle sue intenzioni, in un gioco che sdoppia quello del protagonista Juan, del quale del resto s’è fatto interprete sulla scena anche come attore.