Forse vale la pena di spendere qualche parola su Kirill Serebrennikov, attivo regista di cinema e teatro, coinvolto di recente in una vicenda in cui il suo studio di produzione è stato accusato di frode nei confronti dello Stato russo per l’appropriazione di fondi statali. Figlio di madre ucraina e padre ebreo, Serebrennikov è un difensore dei diritti in Russia e della comunità LGBT e non pochi problemi queste sue posizioni gli hanno causato. Il suo cinema in Italia è pochissimo conosciuto se non ai frequentatori di alcuni festival che hanno ospitato i suoi film. Sulla piattaforma I Wonderfull di MyMovies è ora disponibile questo suo ultimo lavoro, che in Italia si intitola Petrov’s flu, – invece che l’originale Petrovy v grippe (titolo del romanzo di Alexey Salnikov da cui il film è tratto), che poi sarebbe come dire L’influenza di Petrov, – in attesa di La moglie di Čajkovskij successivo a questo. La cultura russa è costantemente attraversata da una vena di follia compositiva, da una sovrapposizione di materiali che sembra costituiscano superfetazioni quasi naturali di un cinema che pretende di continuo di contenere l’incontenibile, sempre sul punto di straripare, ma con l’eccezionalità di sapere restituire allo spettatore un senso del tutto originale alle proprie opere, uno spettacolo composito e irrefrenabile, in una congerie di materiali visivi che attingono ad una storia, ad una cultura solida e antica, ad una idea di narrazione che è propriamente russa, quasi geneticamente impiantata tanto da diventare imprinting naturale. È così per la letteratura classica ed è così per il cinema. Kirill Serebrennikov non si discosta da queste caratteristiche, anzi, questo suo lavoro lo conferma, estremizzando ogni più dimessa riflessione.
Il filo che lega il film è Petrov che di mestiere fa il disegnatore di fumetti. Petrov ha una moglie che lavora in una biblioteca frequentata da occasionali poeti (della domenica) e un figlio disorientato da questa originale famiglia. Ma soprattutto Petrov soffre di una invincibile influenza aggravata dal clima freddo e nevoso della sua città, dai malsani ambienti che nel suo delirio frequenta e dalle numerose sigarette che incessantemente fuma. Il racconto si dipana tra sogni e realtà, tra ricordi accumulati come in un deposito di ricordi e fantasie da fumetto, compresa la moglie che quando la violenza chiama si trasforma in una specie di vampira supereroina da invincibili superpoteri. Ma in ogni caso la conclusione è che qualsiasi narrazione si faccia di un film come Petrov’s flu sarà limitata e lacunosa, poiché Serebrennikov sa bene cosa vuole essere il suo racconto e ne blinda la trama facendola diventare oggetto esclusivo del cinema non replicabile (neppure lontanamente) con le parole. Non resta che abbandonarsi al ritmo ora lento ora nervoso del film, non resta che lasciarsi andare in questa narrazione così stratificata, dentro la quale il raccordo tra fantasia e ricordi, tra reale e sua trasfigurazione diventa il tessuto del film, nel quale la materia del sogno attraversa di continuo la quotidianità di Petrov, tra sudici autobus frequentati da fanatici intolleranti, da visionari e visionarie interlocutori di extraterrestri e personaggi immaginari nei suoi detour in una specie di realtà aumentata. È una interpretazione estrema del cinema e delle sue possibilità, Petrov’s flu è in fondo un film antinarrativo, quasi integralista nella sua accezione di opera aperta, come nel suo fondamentale saggio Umberto Eco definì quelle opere che si prestano ad una molteplice interpretazione, rispetto a quelle che conducono il fruitore ad un’unica strada interpretativa che corrisponde ad un unico livello di lettura.
Petrov’s flu proprio in questa accezione consente allo spettatore di accedere a più chiavi interpretative, che vanno dalla disgregazione della coscienza del suo protagonista a quella, altrettanto preoccupante, di una intera collettività. In altre parole è in quella forma variabile e liquida che il suo corpo d’opera diventa materia duttile e strumento efficace per una rielaborazione del presente, per una visione distopica in un susseguirsi di eventi che sembrano tutti immersi in un fruttuoso liquido amniotico, dal quale ci si può attendere ogni sviluppo. Ciò accade proprio perché il film lavora efficacemente su più strati narrativi o meglio antinarrativi, su più livelli di linguaggi, unificati da una un’unica visionarietà che conferisce unità al progetto. Film naturalmente rischioso e a suo modo antispettacolare, ma, in altrettanta aperta opposizione, anche spettacolare per la capacità di mettere in scena, attraverso il controverso Petrov afflitto da una tosse invincibile che lentamente si diffonde anche all’interno della sua famiglia, una (in)coscienza costantemente allucinata, in uno stato percettivo, sempre allerta in cui i piani del vissuto si sovrappongono, si incrociano e si confondono con derive narrative inusitate e inattese, che sembrano avvitarsi in una spirale senza fondo e a volte senza soluzione. Kirill Serebrennikov firma un film complesso che si lega più o meno direttamente alla cinematografia russa del nostro presente, almeno sotto il profilo di quelle chiavi narrative e rappresentative così differenti dalla, a volte didascalica, percezione occidentale. Per questi motivi Petrov’s flu ha bisogno di una forte collaborazione e disponibilità da parte del suo pubblico. Un film debordante, eccessivo, smisurato, in cui il capo e la coda si confondono e si sostituiscono a vicenda. Petrov’s flu diventa così esperimento visivo e narrativo insieme, uno smisurato metro per misurare il desiderio di un cinema infinito, onnisciente e onnipresente, che si sostituisce al linguaggio onirico e lo rappresenta in una forma possibile. Petrov’s flu nel suo fluire intercetta visioni distorte del reale e, al contempo, traduce il desiderio di una narrazione che sia libera da ogni pretesa di verità, che traduce un’anarchia compositiva propria di quella ardita follia che la Russia ha saputo sempre originalmente proporre e che Kirill Serebrennikov riesce a dimostrare riempiendoci gli occhi di immagini, che non avremmo mai immaginato di sentire alla fine come un poco nostre.