“Diavoli della Pixar. Sono i migliori registi del mondo, i migliori sceneggiatori, i migliori umoristi, i migliori disegnatori. E fanno cartoni animati. Quando pensi di aver visto il massimo, sono loro stessi a superarsi a sinistra: esteticamente (pensate alla progressione Cars – Ratatouille – Wall-E ), fisiognomicamente (dopo il robot/umano e gli uomini/massa/Botero ci voleva un bel fegato per scommettere sull’impatto eroico di un vecchietto col deambulatore e un boyscout ovoidale), tematicamente (con che coraggio si sdogana alle masse una riflessione sull’elaborazione del lutto, sulla solitudine, sul sogno irraggiungibile di un luogo –dell’anima- dove trovare quella pace che la vita non sembra più in grado di dare mai a nessuno, in nessun dove?).”
Scrivevo queste righe per Linus nell’ormai lontanissimo 2009 a proposito di Up, il film di Pete Docter precedente a Inside Out e successivo a Monsters & Co., convinto (e lo sono tuttora) che questo allampanato ragazzone, le cui fattezze e il cui nome sono alle masse più che relativamente sconosciuti, fosse uno dei più grandi e ambiziosi autori contemporanei. Lo è ancora: e con Inside Out, appunto, approda alla sua scommessa definitiva e al suo film più teorico e insidioso. Stavolta, Docter vuole letteralmente rappresentare la mente: dare forma e corpo alle emozioni e spettacolarizzare il funzionamento della psiche umana inventandosi una sorta di cabina di pilotaggio del cervello con schermi/occhio che rimandano ciò che il soggetto vede/vive e un sistema di archiviazione della memoria e di “isole” mentali a metà tra Escher e Disneyland (o Dismaland, anticipando anche quel furbacchione di Banksy). Protagonisti di questo scenario sono cinque personaggi (meglio: tipologie di personaggi, perché ognuno ha le sue, come dimostrano le poche e brevi sequenze ambientate nel cervello dei genitori della protagonista e quelle dei titoli di coda che estendono un po’ contraddittoriamente il concetto anche agli animali), antropomorfi e simbolicamente cromatizzati, che abitano la nostra scatola cranica: la “trillesca” (nel senso di Peter Pan) Gioia, la “blue” (nel senso appunto di malinconia) Tristezza, la verde snob Disgusto, il titubante viola Paura, l’irascibile (e quindi rosso) Rabbia. Una bella differenza rispetto alla gabbia kirbyana (nel senso ciclopico di Jack Kirby e dei suoi universi subatomici) o alla praxis dell’immaginario fantascientifico con cui siamo abituati a percepire graficamente l’attività e la scenografia del cervello (masse fluttuanti di materia grigia, nubi di scariche elettriche neuronali, tempeste di fulmini emozionali); e ovviamente ben distante anche dalla possibilità di identificare questi nuovi agenti con variazioni delle tre incarnazioni classiche di Es, Io e Super Io (ma c’è sempre la possibilità che un qualche cialtrone alla Spike Jonze ci arrivi, e realizzi la sua versione freudiana di Inside Out: speriamo che nessuno gli metta la pulce nell’orecchio). Un apparato immaginifico inedito e sorprendente per mettere in scena (o almeno così inizialmente sembra) la crisi psicologica e relazionale di una bimba, Riley, costretta ad abbandonare casa, amici, giochi, sport (la vita, insomma) per seguire il papà (anch’egli obbligato da quella parte di vita adulta che invece si chiama lavoro) a trasferirsi dal Minnesota a San Francisco: una crisi che progressivamente distrugge/cancella/disattiva le aree “felici” della sua mente mettendo i cinque tutori dell’ordine mentale di fronte al disastro del disagio. E che adombra quello che è invece il vero tema del film (lambito soltanto nel finale, quando a emergenza risolta una nuova plancia ingloberà nei suoi comandi anche la “misteriosa” pubertà): ossia la mutazione percettiva e sempre problematica e disagevole del passaggio dall’infanzia all’adolescenza (senza, e ci mancherebbe, nemmeno flirtare con l’ipotesi della malattia psichica o del trattamento delle manifestazioni del disagio con la prescrizione di psicofarmaci che le statistiche mostrano essere ormai divenuta uno standard del trattamento dei malesseri mentali della gioventù americana).
L’idea vincente del film è quella di rendere inconfutabile fin da principio (i primi ricordi vedono la presenza della sola Gioia come compagna della neonata Riley, mentre la comparsa graduale delle altre quattro emozioni completa l’organico del modello mentale “operativo”) la sua premessa. Quella meno vincente, chiaramente dovuta alla necessità di semplificazione di qualcosa già per se complicatissimo da restituire sotto forma di spettacolo “per bambini” (e infatti metà dei bambini non capisce cosa succeda nel film, come già vuole la leggenda delle reazioni allarmate della Disney dopo i primi test screening del film ai nativi digitali), è quella però di non aver suggerito che i cinque elementi base, una volta acquisiti, non agiscono quasi mai a turno, come viene visto fare nel film, ma sempre, diciamo così, in team. Ovvero: Paura e Tristezza producono ansia, Disgusto e Paura repulsione, Paura e Rabbia l’odio. [Visto che state leggendo una pagina digitale cliccate su questa cosa geniale per capire esattamente le possibilità combinatorie: http://flowingdata.com/2015/06/30/combining-inside-out-emotions-for-new-ones/)] In Inside Out, Docter sceglie di considerare solo una delle possibili varianti di questo polisistema: ovvero l’interazione (inizialmente problematica e poi fruttuosa) tra Gioia e Tristezza (che producono malinconia) invitando lo spettatore a riflettere sulla necessità che esse si combinino nella mente di ogni singolo individuo per meglio affrontare le avversità dell’esistenza. La curiosità sui possibili e molteplici what if resta alta. Ovvero: cosa sarebbe successo se, poniamo, anziché Gioia e Tristezza nella mente di Riley si fossero persi alla ricerca di una soluzione al problema Paura e Rabbia, ossia l’odio? Ne sarebbe uscito probabilmente un altro film (decine di altri film), quasi tutti con l’esito finale della creazione di una personalità deviante: il che ovviamente non avrebbe soddisfatto le necessità ecumenico/ottimistiche della Pixar, più interessata a conclusioni semplicistiche alla Vera Pfeiffer (o Louise Hay) che a derive da anatomia della distruttività umana come Erich Fromm ci insegnò. Va da sé che, al di là della poesia, del divertimento e della meraviglia, innegabili ma in qualche modo “scontate” data la natura da fuoriclasse dell’intera macchina-Pixar, il vero limite di un film come Inside Out (verosimilmente sfuggito di mano ai suoi stessi creatori, data l’esagerazione di implicazioni sottesi dal suo stesso portato) sia infatti proprio (in spregio alla estrema complessità della sua stessa struttura) una rappresentazione per certi versi irritante e per altri paradossalmente inappagante della psiche come meccanismo semplice, in sintonia con il discusso empirismo della dottrina della psicologia comportamentale (normalizzante) tipicamente americana. In questo senso, Inside Out è un film che alla resa dei conti malcela la volontà di non sollevare reali problematiche: un’opera normalizzante, di elogio a una regolarità che purtroppo, nel mondo reale sull’orlo della follia che si guarda bene dal mettere in scena, suona come un rintanarsi fiabesco e forse un po’ ipocrita in quei modelli filosofici disneyani che oggi la stessa Disney mette (pure lei non sempre efficacemente) in discussione (tipo, per intenderci, la teoria stronza che dall’intera storia del cinema in qua viene ammannita alle bambine sull’esistenza inconfutabile del Principe Azzurro). E anche il trauma della “normalità” non viene posto in essere: solo quello della sua mancanza, dando per scontato che la “normalità” sia cosa buona (non lo è) e pur dipingendo Gioia con pennellate d’insopportabilità tali da lasciare con la sensazione della (mancata) costruzione di un personaggio al fondo negativo (quasi a dire che nel duro confronto col reale, proprio l’azione individuale e solitaria di Gioia finirà sempre col risultare residuale e produrre effetti potenzialmente nocivi). Ma non basta. Chiaro è, tuttavia, che limitandosi all’impatto con ciò che si vede (e in qualche caso, ma non molti, con ciò che si prova: tutta questa commozione sbandierata dagli esegeti sembra più il frutto di una volontà di commuoversi che non di un effettivo trasporto emotivo) l’effetto di un simile impianto porti comunque in prima battuta a gridare al capolavoro, soprattutto se il metro di paragone sono la piattezza, la normatività e la commerciabilità di ciò che trionfa al botteghino del cinema d’animazione digitale corrente (come i sopravvalutatissimi Minions, o il fasullo impeto “rivoluzionario” di Frozen, non a caso il cartoon Disney di maggior incasso della storia del cinema).
Ed è ancora scontato che per l’ennesima volta e quasi sconsideratamente (anche sul piano dell’azzardo economico) la Pixar viaggi chilometri e chilometri al di sopra delle dinamiche usa-e-getta del prodotto di consumo per famiglie. Ma se a una prima visione la sensazione è quella di aver assistito, appunto, all’ennesimo suo capo d’opera imprescindibile, alla seconda (obbligatoria: non pensiate di potervici sottrarre. E comunque, se avete bambini, connaturata all’idea di fruizione di base di questo genere di prodotti, che prevede eterne ripetizioni della visione) già affiora una inedita sensazione di stanchezza che di fatto allontana il film dall’idea di poterne un giorno brandire accademicamente la dimensione di classico o di pietra angolare. Nessuno nega che alcuni colpi di genio resteranno colpi di genio (l’amico immaginario Bing Bong perso nei meandri della memoria, che si rivela cruciale per far uscire Gioia dal dimenticatoio: un personaggio che comunque, esteticamente e psicologicamente -ahi-, è meno felice di mille altre creazioni Pixar), che certe intuizioni sono così potenti che avrebbero meritato uno sviluppo a sé (come la “macchina dei sogni”, ovviamente immaginata come un set -televisivo…- e tutto il suo discorso corollario sul cinema nel cinema, che però a Docter sembra interessare assai poco vista la sbrigatività con cui tratta l’idea alla stregua di altri episodi di passaggio) e che certe arditezze post-sperimentali sono da applauso (il passaggio nella zona off limits -perché? Uhm…- del pensiero astratto, con le sue trovate prima cubiste poi pre-figurative). Ma passata l’euforia iniziale, ecco che molte cose si sgusciano rivelando la loro oggettiva infelicità (l’uccisione -!- del signore-nuvola, con tanto di agenti che indagano sulla sua scomparsa) o la loro malagiustificazione (qual è il senso del clown gigante imprigionato e liberato? E che fine fa?), e che alcuni snodi -purtroppo cruciali- emergono come pasticciati e irrisolti (la piramide umana di aspiranti fidanzati ideali di Riley con cui Gioia e Tristezza vengono ricatapultate nel quartier generale: davvero non c’era una trovata all’altezza del viaggio nel treno dei pensieri?). Elio e le Storie tese cantavano: La tristezza vien vissuta come un valore negativo / Mentre invece va vissuta come un valore positivo / Non commettete l’errore di denigrare la tristezza. Da bravi visionari, avevano già pronta una recensione-lampo che si potrebbe bellamente sostituire alle 11.000 battute che vi ho inflitto sin qui ringraziando per l’attenzione. Perché al di là di tutto (un tutto che, non fraintendetemi, è comunque moltissimo), non c’è molto altro in Inside Out di più profondo o rivelatore.