Loro 2, oltre a fornire uno strumento di decantazione dell’abominio-Berlusconi, di approssimazione all’intimo di quella icona spesso paradossalmente impenetrabile mentre si sciorinava nel salotto di Porta a Porta, è l’occasione, deve esserlo, per non dimenticare che si tratta di cinema e che è del suo specifico che ci si deve occupare, dei significanti, dei cosiddetti tropi, e non di quello che veicolano (se non per induzione, cinematografica appunto), cioè i costumi, la cultura popolare, su cui si sbizzarriscono, dimentichi del film, falangi di esperti di social in pieno ammicco piccato, umoristico; occasione dicevo, per chiarire ancora una volta i meccanismi di creazione e le ossessioni stilistiche di un regista ormai, cioè da quel punto di non ritorno che potrebbe essere This Must Be the Place, in preda al furore dello stereotipo, alla stilizzazione delle sagome e delle movenze, che è tutt’uno con la scelta, a priori, di personaggi atipici, sopra le righe, apoteosi di una gestica fuori dal normale. Il che è una tentazione già in nuce alle origini, in quell’Uomo in più che dice della necessità di uno scarto, di un’aggiunta, come un barocchismo nell’idea stessa della strategia, calcistica ed evidentemente cinematografica, proprio del tipo di uomini utilizzati in questo modulo: dall’allenatore di calcio suicida, in inesorabile progressione fino al nano-usuraio e al suo cowboy padano; Andreotti centripeto; tutto il bestiario, il serraglio esotico, stravagante, di comprimari nella Grande Bellezza; arrivando al dark fragile, facile della rock star in depressione, punto più alto della programmatica non rappresentatività dei personaggi e del cinema di Sorrentino, che non pesca mai nella storia, nelle masse, la collettività fatta di operai, precari, magari anche di ragazzi traviati dal blaterare dei trapper ecc., e preferisce la Storia (Andreotti, Berlusconi appunto) e la bizzarria, la particolarità fuori dal comune, della santa, del papa, del ministro, del re.
Un cinema in più, che vuole aggiungersi, e distinguersi rispetto alla linearità della messa in scena, pensando a Fellini, come si sa, ma non riuscendo a riprodurne (o a variarne) la stratificazione, la complessità e, in questo voler aggiungere che è il suo cinema, restando a corto di aggiunte, efflorescenze, di segni appunto (nonostante la congruenza di tutte le colonne sonore sorrentiniane, tra le più belle del cinema contemporaneo), e tradendo, impoverendo i personaggi (invece nati per tracimare di semantema, di materiale cinematografico) e le scene in cui si muovono, in cui sono, così smaniosi di essere e di fare e così sprovvisti di mezzi, di segni per esserlo. Così in Loro questi personaggi sono come irrigiditi, imprigionati in gabbie di pochi segni, privi di contraddizioni in germinazione sulla base del calco: sono stereotipi poveri, abbozzati (quindi macchiette), ben diversi da quelli dilatati, straripanti, di certo cinema “postmoderno”, ad esempio di Tarantino, Korine; e non dimenticherei neppure i metabolismi bidimensionali, come di carta, di Yann Gonzalez: una fantasia sfrenata, ricchissima, che concepisce personaggi, luoghi, eventi stereotipi inventando o reinventando da lì storie che brulicano di segni profondanti, di connessioni, di piani di significato concentrici. Eppure, uscendo dalla propria, misera griglia linguistica e denudandosi, Tamara (sublime Euridice Axen) apre spiragli a una dialettica sostanziale, densa (tutta un’ipotesi per il cinema di Sorrentino), che non è solo corporale ma affonda poi in animi ottusi, feriti, di personaggi sgomenti di fronte al proprio sopravvenuto, inspiegabile dolore. È la flagranza, la desiderabilità del corpo volgare di Tamara a gambe aperte a bordo piscina, proprio all’inizio di questa seconda parte, che si rade il pube davanti a tutti: il sole smanioso e la macchina da presa percorrono il suo corpo carneo mentre blatera in pieno furore da arrivismo, in un movimento (funzionale come raramente sono i movimenti di macchina di Sorrentino) che è simile a quello finale del film quando passa dal laido Santino ancora in braghe, scrignuto davanti alla finestra, a lei dopo il coito che mangia una brioche in un’altra stanza, solitaria e ormai indifferente, proprio a se stessa.