Tra i migliori film passati in rassegna al Cinema Ritrovato di Bologna, c’è Rosauro Castro (in Italia uscì con il titolo Il tiranno) dell’autore messicano Roberto Gavaldón, presentato in versione restaurata dalla Cineteca Nacional di Città del Messico. Emblema dell’“epoca d’oro” del cinema messicano, narra la storia di un villaggio del Messico rurale, in cui il personaggio che dà titolo al film, Rosauro Castro (interpretato dalla star dell’epoca Pedro Armendáriz), ha preso il potere e il controllo, uccidendo l’unico avversario politico. Impone la propria volontà anche in casa, dove maltratta la moglie per dedicarsi invece alla giovane amante. Un uomo onesto, inviso a Castro, si trova in città per fare visita alla madre malata. Gli vengono concesse solo 24 ore prima di lasciare nuovamente il paese. Intanto un agente della procura indaga sull’assassinio dell’avversario politico del despota locale. È l’inizio della fine di Castro, che culminerà in una sanguinosa sparatoria notturna. Scritto dal regista insieme a Roberto O’Quigley e al libertario (fin dal cognome) José Revueltas, Rosauro Castro è uno straordinario western mélo fatalista e barocco, che si avvale della fulgida fotografia di Alex Phillips.
Gavaldón – ex comparsa di Hollywood prima di tornare in patria a dirigere film – mescola i generi, dal western (ambientazione rurale, pistoleri, cavalli), noir (inganni, femmes fatales, personaggi torbidi opposti a uomini tutti d’un pezzo) e melodramma (dialoghi strappalacrime, la purezza dei fanciulli e di alcune donne sensibili e virginali, vittime delle circostanze). Il risultato è – insieme a La barraca, Nel palmo della mano e Morte in vacanza – uno dei film più interessanti e potenti dell’autore messicano, un mondo tragico in cui l’uomo sembra non avere altro che la pulsione a prevaricare. Come nella vita quotidiana. Straordinaria la sequenza nella scuola elementare in cui il dittatore Castro accompagna di persona il figlio in classe. I bambini stanno per scattare in piedi sull’attenti, già educati dai genitori alla sottomissione al potere, mentre la maestra dice loro di restare seduti. Il figlio del capo ha un fucile giocattolo che l’educatrice vorrebbe ritirare, ma Castro osserva che si tratta solo di un balocco. Nonostante il padre educhi già il piccolo Castro Jr. all’esercizio del potere, il fanciullo ha un’innata vocazione alla purezza estrema e alla preghiera, forse ereditate dalla madre. A differenza del genitore, sa ascoltare e rispettare la maestra e invita il padre a non andare a fare del male al prossimo. L’autore mette a fuoco come un partito (ex) rivoluzionario, una volta al potere, possa facilmente istituzionalizzarsi in dittatura, scimmiottando il potere e la tirannia un tempo tanto detestati/combattuti. Certo, oggi alcuni dialoghi suonano eccessivi e didascalici, ma quando Gavaldón parla per sole immagini (strepitosa la sequenza della sparatoria finale, con tiri incrociati e pallottole vaganti), l’autore colpisce il nostro sguardo in maniera ancora efficace, potentissima e per niente invecchiata. Pare dirci, sentitamente: i bambini ci guardano.