In barba all’invocazione del titolo, uccidere è esattamente la cifra tematica e narrativa del secondo lungometraggio di Andrea De Sica: uno che, per capirci, come sogno nel cassetto coltiva l’idea, ancora non realizzata, di rivisitare La dolce vita di Fellini in chiave dark. Uccidere appunto, o meglio ribaltare gli assunti più facili: come quelli che volevano Non mi uccidere (in streaming sulle principali piattaforme) quale versione nostrana di Twilight. Fermo restando che il romanzo di Chiara Palazzoni da cui il film trae spunto è addirittura precedente a quello di Stephenie Meyer, l’unico elemento in comune alla fine è la somiglianza-contentino tra Robin-Rocco Fasano e Edward-Robert Pattinson. Poi anche questa idea viene uccisa per lasciar spazio ad altro. Ovvero alla storia di Mirta, ragazza di buona famiglia che, dopo essersi legata al tenebroso Robin con la promessa di un rapporto eterno, muore e rinasce da sola. Lui non c’è e il mondo è di nuovo tutto da affrontare, mentre la fame insaziabile aggredisce le carni della ragazza rendendole nerastre. Lei si muove così, in una Roma dai contorni gotici che però è distante dai modelli più classici: è una città dolente, noir e a tratti psichedelica, in larga parte decentrata, fatta di locali interrati, cimiteri e cave abbandonate, capace così di reinnestare nel teen horror una disperazione autentica e molto lontana dalla coolness che ci si aspetterebbe.
Proprio qui si ritrova la creatività di un’opera affascinante nel suo disordine, che si affida a un canovaccio molto esile, lavora poco sui dialoghi (legnosi e per fortuna molto diradati), a tratti spezza la linearità narrativa e indugia in sbalzi di ritmo in controbattuta, per raccontare l’adolescenza quale terreno di confronto duro, fatto di emozioni estreme e un latente senso di morte. Mirta deve quindi imparare a uccidere per vivere, forte della fisicità estremamente duale di una Alice Pagani che ancora una volta è l’angelo corrotto dal mondo che la circonda (come in Baby dello stesso De Sica e prima ancora in Loro di Paolo Sorrentino) e che si dona con carattere al personaggio, sporcandosi e trasfigurandosi come quelle pupille nerastre che ne ridisegnano il viso. Mirta perciò procede, si muove e uccide. Prendendo spunto dalle pagine del romanzo, il film cerca soprattutto la resa espressiva di uno stato d’animo, di una via introspettiva al disagio dell’età di mezzo abbracciandone gli estremi, il romanticismo naïf e un po’ infantile da Tempo delle mele contro la durezza di un mondo fatto di disillusioni adulte. Lo fa stando addosso alla sua protagonista, raccogliendone le sensazioni per farle impattare col mondo. Qui il film non recede, non lascia che lo spleen di questo mondo decadente si trasformi in astrazione, ma affonda i denti nella carne: le scene horror hanno un’immanenza vivida che nell’insieme trasmette un’urgenza degna dei modelli transalpini o orientali, senza mai perdere una certa tetra eleganza.
Non mi uccidere risulta perciò un’opera al crocevia fra più mondi: racconta una gioventù che corteggia il fascino della morte sin dalla scena iniziale in cui Robin guida a occhi chiusi rischiando l’incidente d’auto, ma poi porta questo sentimento allo spasimo. Lo fa stazionando in una dimensione propria, cruda come la carne addentata da Mirta, ma anche introflessa e filtrata dai suoi stati d’animo. Restituisce per questo un sapore volutamente parziale, che non a caso soffre di più nei momenti in cui deve fornire spiegazioni o intessere una mitologia (fatta di Sopramorti e Benandanti), elevandosi invece nelle singole parti. Sono quelle in cui diventa un’opera espressionista, contrappuntata da un corredo musicale che spazia da David Lynch alla trap – De Sica è pure coautore della colonna sonora – lasciando perciò emergere il gusto per la contaminazione che è alla base di un’operazione mai scontata. In uno scenario che ha visto il cinema italiano abbandonare le strade dei generi, salvo ripercorrerle con troppa accondiscendenza, Non mi uccidere porta così in dote un atteggiamento controcorrente, disilluso ma mai cinico e che evoca perciò i detour più particolari della tradizione. Si pensi al grottesco di Dellamorte Dellamore dove “Il tempo passa e le cose non sono mai uguali. Sono sempre peggio”, con lo sceneggiatore e produttore Gianni Romoli a fare da collante. Alla fine, in una dimensione autoriale così spinta, sembra che De Sica miri a uccidere soprattutto le coordinate tipiche del cinema italiano in favore del genere, autentico “sopramorto” degli ultimi decenni, per farlo continuare a esistere.