«Va’ all’inferno, stronzo!», «Vacci prima tu». Questo è solo un piccolo assaggio dei dialoghi di Muti, titolo italiano per il più intrigante originale The Ritual Killer. Una regia firmata a tre teste (anche se viene accreditato alla suddetta solo George Gallo, già autore degli script di Prima di mezzanotte con Robert De Niro e Bad Boys con Will Smith) e una sceneggiatura imbastita da ben sei persone, non risollevano le sorti di un prodotto poco riuscito. Siamo tra gli Stati Uniti d’America (set principale della vicenda) e l’Italia, più precisamente a Roma. Un detective (Cole Hauser), ancora sotto shock per la morte della figlia, si mette sulle tracce di uno spietato assassino di adolescenti, perlopiù ragazzine. Quest’ultimo uccide con un preciso rituale tribale africano, il Muti, che consiste nell’asportare alle vittime occhi e organi sessuali quando queste sono ancora in vita. Il detective, così, chiede aiuto a un antropologo esperto di magia nera per arrivare alla soluzione del caso.
E qui torniamo all’inizio del pezzo, quando si dice che sei sceneggiatori, purtroppo, non siano riusciti ad andare oltre qualche rimando alle dinamiche morbose del filone capeggiato da Seven. Sì, c’è anche Morgan Freeman per dare continuità all’operazione (ricordiamo anche Il collezionista) e il cui nome svetta per primo in cartellone: invece occupa il ruolo secondario del professore universitario, spalla di chi effettivamente segue le indagini per braccare lo spietato macellaio. Certamente, Freeman, resta professionista inscalfibile, nonostante sia servito da dialoghi non all’altezza per qualsiasi attore minimamente preparato. Si dice spesso, troppe volte, che un bravo interprete lo faccia un bravo regista, dimenticando però quante volte un viso e un corpo abbiano salvato operazioni discutibili fatte di regie slavate e confezioni più indicate per l’ambito televisivo che non per quello del grande schermo.
Senza contare, in questo preciso caso, i numerosi raccordi e passaggi narrativi totalmente gratuiti, superflui, generatori di lungaggini (con Giuseppe Zeno nei panni di un concitato ispettore di polizia); le parti, poche, con al centro la città di Roma, sono realizzate alla stregua dell’immagine-cartolina ornamentale e, seppur estremizzato il riferimento, sono ben lontani i tempi (ora irraggiungibili) di Fatal Frames – Fotogrammi mortali, perla scult di metà anni 90, in cui la nostalgia della Città Eterna (e di un tipo di immaginario italico-thrilleresco preciso, funereo, diventato spettro del presente) rimane a esclusiva per pochissimi sguardi allenati. Il thriller, come del resto pure l’horror, oggi resta ad appannaggio di chi sa costruire (o meglio, di chi sa maneggiare con cura) un qualcosa di carismatico; poi, sicuramente l’effetto splatter, se ben realizzato (e in Muti ce ne sono alcuni degni di nota), aggiunge lustro e onore al prodotto in sé; ma non basta solo quello per credere di poter ideare una storia alla cui base ci dovrebbe essere, soprattutto, ritmo e sapidità. E, talvolta, anche un po’ di autoironia.