Mi pare che la questione del cinema di Paul Thomas Anderson e tanto più di quest’ultimo Phantom Thread (Il filo nascosto), freddamente, mortuariamente infiorato di carta da parati e visi di donna imbalsamati, imbolsiti, preda di un’idiozia senza speranza, o una follia all’insegna del liberty, che brulicano per inerzia di pari passo alla nevrosi di Reynolds, sia soprattutto questione di (mancanza di) pathos, di quel contatto violento, scioccante inscritto nel cinema quando incontra gli oggetti del suo stesso farsi, definendosi così, divenendo proprio in quanto forma, stile fremente, flagrante. Ora l’incontro è appunto con questo sfondo floreale che marcisce refrattariamente a ogni inquadratura, anche nei tramonti che perciò non possono che illividirsi, incancrirsi di nubi e macchie malate di sole, mentre si affacciano sul mare, anch’esso irretito dal suo moto uggioso. Si tratta dell’incontro di Anderson con i personaggi stagliati in questo sfondo, che anziché instaurare quel contatto, quel fremito relativo all’evento (cioè il cinema che in quel momento si fa), provoca la distanza del suo guardare e filmare, una freddezza d’osservazione, proprio la notonomia di questi esseri che allora risultano penosi nel loro dimenarsi, non amati se non proprio disprezzati da chi li ha contemplati per la prima volta. Che è uno sguardo di derivazione kubrickiana, ora svelato nella scena della corsa in macchina (e ritorno) di Reynolds: qualcosa riguardante l’imparzialità geometrica nel mostrare i personaggi e il mondo (chiusi nei loro involucri) che mi pare caratterizzi gran parte dell’opera di Kubrick, a esclusione forse di Spartacus (splendida anomalia), ma soprattutto di Orizzonti di gloria e Full Metal Jacket in cui la passione, la partecipazione del dispositivo e di chi ne dispone (o ne è disposto) emerge su un piano di umanitarismo, di etica essenziale e a tratti lirica.
Gli involucri appunto: Anderson non denuda le epidermidi intaccate dalla febbre d’amore, dalla malattia della passione, ma le copre, le veste concentrandosi così impassibile sul fruscio che questi abiti lasciano all’esterno, mentre i corpi, anzi le siloette che li indossano si muovono compunte o goffe, ieratiche o prosaiche in stanze e saloni tappezzati di carta a fiori, tra scricchiolii di pane e burro, sfrigolio di funghi, il costante frusciare di vesti, pizzi, filigrane di fiori; tutto un décor audio-video a cui si aggiungono Schubert, Brahms, Fauré ecc., che scandisce un’”alienazione da camera”, una fenomenologia di sagome tutte esteriori che si muovono nell’insensata concretezza del mondo. E infatti il primo atto dell’interesse di Reynolds per Alma consiste nel vestirla, misurarla, nell’eleggerla a manichino di una pantomima che poi si scoprirà edipica: lui che si fa avvelenare dalla malattia d’amore di Alma pur di tornare allo stato di protezione e filiazione, curato come un bambino, in bagno o nella stanza da letto, dal deliquio delle febbri; e lei che dal suo canto è felice di avvelenare ai fini di questa maternità malata e per poter curare e così possedere gelosamente l’amante. Il problema è che in questa trama amorosa che si snoda estenuata e antiquaria, in fili di pregio e fodere, mancano i corpi, gli amplessi o i tentativi di amplesso, perché è lì, in camera da letto, che le nevrosi o semplicemente i caratteri si svelano e si articolano in immagine lampante, coreografie dotate di senso, vera e propria dialettica. In Phantom Thread tutto è celato da porte chiuse che impediscono lo sguardo, lo sbocco cinematografico, anzi proprio eidetico, quello stesso che invece era esaltato, mettiamo, dal Cronenberg di A Dangerous Method, che in questo senso può considerarsi un film eponimo, e una sorta di antitesi e di antidoto se si vuole, al film di Paul Thomas Anderson. Lì la macchina da presa, nonostante fosse stata per molto tempo irretita dalla parola, dal carico dialogico soffocante, entrava nell’alcova e vi trovava, nudo, carneo, il senso di due esseri nevrotici (cioè esemplari) che si compenetravano e si percuotevano in totale godimento, nella congruente posizione dei corpi, disegnando così un codice di densità immaginifica, traslando il senso profondo del loro stesso essere in quella disposizione di segni che per giunta veniva moltiplicata dagli specchi. Per non dire di Crash (capolavoro irraggiungibile) che era stata la premessa tutta coreografica, plastica al conte philosophique di A Danger Method. Ad ogni modo una palpitazione, un conturbamento, quello cronenberghiano, un amore (in questo caso perverso, vizioso come tutti gli amori assoluti) verso i suoi personaggi, che sembra mancare a un Paul Thomas Anderson messosi a distanza di sicurezza, a osservare un’umanità sempre ottusa, che si muove pervicace e senza coscienza nell’esteriorità di un mondo non senziente.