Coralie Fargeat è una tipa con le idee chiare e lo dimostra scegliendo, per il suo esordio nel lungometraggio, un rape&revenge che si dichiara fin dal titolo e che, soprattutto, è quintessenziale nel rispettare a menadito le regole del genere. Lo fa, si badi, non per rifugiarsi nel conforto garantito dal noto, ma per ribadire delle qualità peculiari che questo tipo di narrazione sembrano evidentemente assecondare. Lo schema è dunque consolidato: una ragazza bellissima – la nostra Matilda Lutz, già vista con l’ultimo Muccino e che qui ha l’impatto di una Jessica Alba tricolore – oggetto del desiderio di tre cacciatori in Marocco. Uno degli uomini però perde la testa, e scatena la violenza che poi, in un’escalation che passa per un tentativo di omicidio per eliminare ogni prova del misfatto, genererà infine la vendetta. Fargeat gira con precisione, sfruttando con consapevole intelligenza l’eleganza del moderno cinema di genere francese, ma con l’obiettivo rivolto a un pubblico universale, si veda la narrazione bilingue (in inglese e francese). Le sue immagini descrivono un mondo ribadito con precisione nelle forme e nelle architetture del paesaggio, con una profondità di campo che disperde i personaggi negli scenari riarsi del deserto marocchino, dove sorge – cattedrale del lusso e dello spreco – la villa da cui si dipana la storia. L’esibizione esteriore dei concetti edonistici è satirica e pungente, e si fa poi carne e sangue elevando il corpo a rinnovato terreno di scontro: quello desiderato di Jen/Matilda, e quello poi martoriato, marchiato, attraversato da lame e proiettili degli uomini stupratori. La lucidità di Fargeat è data proprio dalla capacità di mantenere costante e viva l’escalation sanguinolenta che, pur affondando in una visualità splatter degna del Fulci d’annata, non è interessata in maniera preminente al grottesco, quanto alla capacità di definire i rapporti fra i personaggi (e fra i sessi) proprio attraverso la grammatica della carne violata.
La fisicità si fa pertanto mutante, i corpi si deformano in base al contatto reciproco e con l’ambiente, si marchiano e si maciullano, ma restano l’unico terreno possibile per un racconto fatto di pulsioni, dove i ruoli arrivano a confondersi e la sensualità debordante della protagonista si fa infine nervosismo muscolare nell’estasi vendicativa. Costretta dal ruolo a essere corpo fin dalla sua entrata in scena, Jen non ha passato né presente, ma si descrive attraverso una fisicità ora fatta di desiderio, ora di forza bruta, attraverso una metamorfosi memore delle parabole dell’action anni Ottanta – e la performance di Matilda Luz è straordinaria in tal senso. La regia riesce così a mantenere la giusta dose di empatica visceralità, pur restando sorvegliata nella lucidità degli assunti. La ricontestualizzazione di schemi consolidati nello scenario contemporaneo ribadisce infatti la necessità di un ripensamento dei ruoli, pur giocando sempre nel perimetro delle dinamiche classiche: il che significa che la donna è vittima della brutalità maschile, ma può aspirare a una nuova definizione tanto che la catarsi finale ha sia il sapore dell’annullamento che della rinascita, e il corpo inondato di sangue e segnato dall’avventura emana una sensualità affine eppure diversa da quella primigenia. Non a caso, pur reinventando spazi e tempi, il film sembra attraversato da un’ideale specularità fra la prima e la seconda parte: l’inizio e la fine sono delegate a un’inquadratura dell’elicottero in volo verso la macchina da presa, con la sequenza lisergica e visionaria nella grotta in cui Jen “risorge”, a fare da spartiacque a metà della storia. Jen, insomma, finisce in un nuovo inizio e ora se ne potrà scrivere la storia, in quanto donna e non soltanto oggetto del desiderio.