Riappropriarsi del mondo: Planet B, di Aude Léa Rapin apre la SiC di Venezia81

Il sonno della ragione è un incubo virtuale in Planet B, secondo lungometraggio di Aude Léa Rapin, presentato come evento speciale di apertura alla Settimana internazionale della Critica di Venezia 81: al fondo c’è infatti la distopia di una Francia del 2039, dove la generazione dei padri ha fallito e accettato la resa del mondo alle logiche di un sistema oppressivo, mentre quella dei figli si è organizzata in un nuovo movimento eco-terrorista, sabotando antenne e postazioni del potere politico-economico-mediatico. Tra loro c’è l’attivista Julia Bombarth (Adèle Exarchopoulos) che dopo essere stata catturata viene confinata nel Pianeta B, un mondo virtuale in cui sotto forma di avatar non può morire, ma è sottoposta a un costante stress psicologico, attraverso l’induzione di incubi, perché ceda e tradisca i suoi compagni. Dopo essersi impadronita di un visore delle autorità, però, nel luogo riesce a penetrare anche Nour, una giornalista che cerca di aiutare la ragazza a scappare. Il mondo che la Rapin mette in scena diventa in tal modo una sintesi di problematiche più ampie che attraversano il nostro presente e che la storia affastella con foga, intrecciando questioni ambientali, immigrazione, sistemi di rieducazione repressiva, relazioni problematiche fra il reale e il virtuale, come a voler suggerire la mancanza di un rapporto di correlazione diretta fra realtà e sua rappresentazione che fa il pari con una diffidenza diffusa tra i personaggi. In tal senso, Noura è la chiave di volta, perché nel suo essere una figura fuori da ogni equilibrio (si nasconde dietro pseudonimo, è immigrata, lavora per il sistema ma nel contempo cerca di trarne il minimo vantaggio per sopravvivere) è l’unica che cerca costantemente di costruire una fiducia con gli altri.

 


 
L’occasione arriva con questa improbabile alleanza fra reale e virtuale, tra il pianeta distrutto e quello idilliaco della rappresentazione digitale, un universo dai colori caldi contrapposto a quelli al neon del mondo “di fuori”, che fa pensare a una rappresentazione cameroniana rovesciata, una Pandora degli inganni contro uno spazio che va comunque rifondato. Se la traccia portante è data dal peso dello sguardo e degli inganni cui lo stesso è sottoposto, il merito di Aude Léa Rapin è quello della ricerca di un’umanità che doni una gravitas a un racconto altrimenti a rischio di rimanere schiacciato dai suoi eccessivi spunti, dalla tendenza eccessiva alle digressioni e all’alternanza dei toni e dei temi. In questo senso è meritorio che l’atmosfera distopica sia suggerita attraverso un efficace lavoro sugli spazi, con inquadrature sempre molto strette che ritagliano porzioni significative di essenzialità, pur nell’ampiezza del formato delle immagini (quasi carpenteriane in questo senso), piuttosto che sull’armamentario tecnologico, presente ma ridotto al minimo e utilizzato più in forma evocativa che esibita. Il mondo di domani è un presente deformato ma concreto, dove i personaggi sanguinano e i corpi sono segnati dalla sofferenza, in modo da creare un’atmosfera credibile, che allinea il film alle più recenti rappresentazioni di un fantastico realistico del cinema francese – si pensi a un The Animal Kingdom, dove il parallelo è favorito anche nella presenza in entrambi i casi di Adèle Exarchopoulos nel cast.