Le mani nei corpi dei burattini, le braccia in alto a raggiungere il piccolo proscenio: al solito nel cinema di Philippe Garrel è tutta una questione di vita infusa nella scena e nei personaggi. Ma Il grande carro, (in Concorso alla Berlinale 73), è un quadro miniaturizzato dell’eterno dramma garrelliano, slittamenti sentimentali, intrecci di esistenze, la morte che incombe, il dolore che cicatrizza le ferite. Ovviamente è prima di tutto un ritratto di famiglia, nel quale Philippe ha voluto riunire per la prima volta tutti insieme i suoi figli, attori, Louis, Esther e Lena Garrel, chiamandoli a interpretare i figli di un maestro burattinaio che tiene insieme la baracca attorno a una tradizione fatta di incanto, narrazioni, personaggi che tornano e ritornano. L’immagine traslata del pater familias che ha donato ai figli non solo la vita ma anche il mondo in cui e di cui vivono, è incarnata nel film da Aurélien Recoing, in versione senescente: è lui l’anima di quel mondo, tiene insieme i figli che infatti alla sua morte si trovano a dover sopravvivere alla solitudine e alla libertà. Louis realizza finalmente il suo sogno di essere attore, le sue sorelle portano avanti la compagnia ma devono anche trovare le forme e i mezzi per farlo. L’amore – che c’è e che non c’è più, o si trasforma… – nella scena garrelliana è sempre il perno su cui tutto ruota. L’amore che tiene insieme la famiglia, gli amici, gli amanti: Pieter, unico membro esterno della compagnia, lascia così che Louis, ormai attore di successo, si innamori della sua compagna e faccia da padre a suo figlio. Lui intanto si dedica alla pittura, che è il suo sogno, finendo nel classico vortice dell’ossessione creativa che gli artisti di Garrel conoscono bene.
Tutto scorre, per infusione e giustapposizione, per dedizione e tradizione, per libertà e costrizione: il mondo è un quadro in cui la composizione degli elementi in scena è la vera poesia, le sfumature vengono meno, sempre di più – ammesso che mai il cinema di Philippe Garrel le abbia conosciute, nella sua fiera, determinazione, nella magnifica caparbietà del suo essere gesto esclusivamente creativo. Il grande carro è in questo senso un film limpido e immediato come uno specchio, c’è una ingenuità che esprime il desiderio di mostrare al mondo l’immagine infine composta di un percorso esistenziale che Garrel ha tracciato con coerenza sin dall’inizio. Non c’è urgenza in questo film, non c’è tormento, c’è la dedizione, l’inerzia della forza creativa, l’impossibilità dell’artista di sfuggire alla propria arte. È un film sulla libertà rimossa e sulla dedizione al proprio destino: in termini garrelliani è come dire che è un film sull’arte.
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