Nella lingua giapponese, ci spiega la didascalia iniziale, il kanji “rei” da solo non significa nulla, ma può assumere diversi significati se unito ad altri kanji: con questa premessa, non è difficile intuire che Rei, l’opera prima del giapponese Tanaka Toshihiko che ha vinto la Tiger Competition a Rotterdam53, sia un’opera su valore e disvalore della solitudine. Sarà che il film nasce dall’esperienza dell’isolamento indotta dalla pandemia, quando il regista, impegnato in studi di economia negli Stati Uniti, ha immaginato questa storia traendo spunto dalla sua esperienza precedente di attore teatrale. Rei è in effetti un’opera che, nei suoi 189 minuti di durata, si insinua nei tornanti di un dramma familiare che è anche una storia d’amore e una riflessione sull’importanza di sapersi prendere cura degli altri, tanto quanto una speculazione sulla rappresentazione della vita attraverso le immagini e la recitazione. Un insieme di vettori che confluiscono nell’impianto complessivo di un film di sicuro ispirato, ma anche indubbiamente segnato da un proliferare di figure e situazioni, che non trovano sempre la giusta collocazione drammaturgica.
Il baricentro in/stabile del film è Masato, un giovane fotografo di paesaggi, sordo, che vive sulle montagne di Hokkaido in equilibrio sulla sua solitudine, che tempera nel rapporto fotografico con la natura e con il sostegno, in realtà un po’ morboso, di un amico, l’unico col quale condivida una relazione autentica.
Almeno sino a quando non risponde a una email inviatagli da Matsushita, una giovane impiegata di Tokyo che, attratta da una sua foto riprodotta sulla locandina di una compagnia teatrale, gli chiede di incontrarlo e di farle un servizio fotografico. Imprevedibilmente Masato (che è interpretato dallo stesso regista) accetta e tra i due nasce progressivamente una relazione che avrà conseguenze inaspettate nel momento in cui uscirà dalla sfera separata garantita dalla natura e dovrà entrare in contatto con la società degli uomini. È qui che le cose si complicano e il film perde la barra: l’altro versante di Rei, infatti, è quello offerto dalla difficile condizione di una amica di Matsushita, sposa serena di un marito broker che la tradisce e madre di una bimba sorda che non riesce a gestire come vorrebbe e dovrebbe. Ma non è tutto, perché c’è una terza scena che offre un’ulteriore sponda al film, quella dell’attore teatrale di cui s’invaghisce Matsushita al suo rientro da Hokkaido e che avrà un ruolo determinante nella drammatica tornata finale.
Quello di Tanaka Toshihiko è un esordio totalmente autarchico, nato e realizzato al di fuori del sistema produttivo nipponico, costruito sulla convergenza sull’autore di un po’ tutti i comparti espressivi del film (dalla sceneggiatura al montaggio, dal suono alla recitazione) eppure elaborato secondo una coralità quasi da compagnia teatrale, che evidentemente ha visto coinvolti gli interpreti nella definizione del film, nell’elaborazione spesso performativa delle scene. L’esito infatti è indubbiamente scomposto, eccessivo nelle torsioni drammaturgiche e piuttosto teatrale nei dialoghi e nella recitazione. L’esposizione delle psicologie produce una drammaturgia esponenziale e una successione di eventi che non combaciano mai e soffrono la durata del film. C’è però da dire che l’ambizione di Tanaka Toshihiko è più confusa che sbagliata e il regista potrà di sicuro crescere se saprà smettere di essere un kanji isolato.