Senza alternative: a Pesaro 56 e in sala Rosa pietra stella di Marcello Sannino

Carmela è una donna che non ha alternative, procede come sa e come può nei vicoli del centro antico di Napoli, procurandosi una sopravvivenza che in realtà non basta né a se stessa né alla figlia, Maria. La ragazzina ha undici anni e nutre una determinazione che sembra aver preso dalla madre, indirizzandola però in direzione opposta, verso un bisogno di stabilità che Carmela proprio non sa come darle: lo sfratto dall’appartamento in cui vivono è esecutivo e c’è poco da fare, se non occupare una delle case del parroco, che non vuole saperne di aiutarla. Il contesto in cui Marcello Sannino fa muovere la storia di Carmela, la protagonista di Rosa pietra stella (visto a Pesaro 56 e ora in sala), è semplice, immediato. Non ha bisogno di aggiungere troppo alla drammaturgia di una femminilità che risuona di verità quotidiana. Carmela è una presenza alla quale, del resto, Ivana Lotito offre una forza naturale molto interessante, nel suo esser priva di stratagemmi recitativi, di ceroni e metodi, puntando solo sulla definizione di una forza dell’esserci in scena, che corrisponde al modo di vivere del suo personaggio, imponendosi per mancanza di alternative. La sua Carmela è una figura che gioca alla pari il suo ruolo rispetto allo sfondo in cui Sannino la colloca, i vicoli di una Napoli stranamente silenziosa, quasi trasparente, deprivata dei suoi colori anche nella fotografia un po’ diafana di Alessandro Abate.

 

 

In questo spazio quasi discreto, privo dei clamori della scena partenopea serializzata da cinema e televisione di questi anni, Carmela trova una sponda d’alterità in Tarek, un algerino che vive in Italia da ormai vent’anni, interpretato da Fabrizio Rongione con il suo consueto sottotono umanistico accogliente e amaro. Tarek è un tipo discreto, mite, gestisce la piccola pizzeria kebab di quartiere con la stessa tranquillità con cui non osa amare Carmela dell’amore che evidentemente prova per lei. Un po’ alla stessa maniera della piccola Maria, che vorrebbe poter amare la madre come desidera, ma anche lei, come Tarek, si trova davanti una donna troppo impegnata a sopravvivere per occuparsi dei sentimenti: non tanto quelli altrui, quanto i propri, induriti dalla lotta quotidiana, da un rapporto con la madre che non le ha lasciato alternative all’esser così com’è. E allora Carmela si aggira nel sottobosco dei permessi di soggiorno per gli immigrati irregolari che le presenta Tarek, ai quali procura contratti di lavoro fasulli per poter accedere al diritto di restare in Italia. Non facile muoversi tra avvocati, intrallazzatori, poveracci che cercano una via d’uscita… Rosa pietra stella sta tutto in questa rete di relazioni immediate, non si spinge mai in una drammaturgia altisonante, e in realtà questa è la sua qualità principale: Marcello Sannino livella il rapporto tra la scena e i personaggi, li parifica in un destino di acquiescenza a un sordo e insensibile dolore quotidiano, in cui c’è come un senso di sacralità dispersa nel gioco di relazioni azzerate e impossibili. Il film è tutto puntato sulla ricostruzione di una forma dei sentimenti per la sua protagonista, nell’edificazione di un possibile rapporto con la figlia e con Tarek che trovi uno spazio vivibile, una dimensione abitabile, condivisibile (la scena su cui il film si chiude è, in questo senso, davvero notevole per intelligenza visiva e drammatica). La sottrazione scelta da Sannino come chiave d’accesso alla storia che racconta, funziona dunque come spazio neutrale di un film che alla fine sa vibrare di emozioni e sa elaborare idee visive, nonostante fatichi un po’ a immettersi (e a immetterci) in un senso del tempo che sia in grado di amalgamare il tutto.