C’è una soffusa fragilità in Tant que le soleil frappe (Beating Sun), primo lungometraggio di finzione del francese Philippe Petit, in Concorso alla 37a Settimana della critica. Anzitutto riflette la condizione in cui si trova Max, architetto paesaggista protagonista della vicenda, perennemente in bilico tra ambizione, perseveranza e ostinazione ma anche al centro di un percorso di avvicendamento delle proprie priorità etiche e professionali, stretto dalla morsa di un’utopia inespressa che mira a rendere migliore la vita degli altri ma pure non sottovaluta la necessità di lavorare. Benché brillante e sovversiva, l’idea di trasformare una piazza abbandonata in un luogo inclusivo, amabile e abitale per garantire agli abitanti di Marsiglia l’opportunità di vivere a bassa velocità è tanto fragile quanto il suo corpo ossuto è esile, in lotta con il caos urbano e le regole non scritte del sistema.
Una precarietà emotiva e relazionale che Petit fotografa con leggerezza e precisione concentrandosi sui dettagli del volto di Swann Arlaud, le sue piccole ossessioni, l’energia di un corpo nervoso sempre in movimento e alla ricerca di qualcosa di stabile che sembra non riuscire ad afferrare, riuscendo a restituire allo spettatore il profilo asciutto di un personaggio complesso, le cui nevrosi e i cui limiti rivelano un profondo conflitto interiore mai pienamente risolto, sospeso, in bilico tra un prima e un dopo, un sostare e un attraversare, un andare diritto e uno svoltare, l’energia limpida di chi vuole cambiare rotta e l’angoscia di chi non riesce a vedere l’orizzonte e i traguardi. La vicenda di Max è speculare alle trasformazioni di Marsiglia e alla sua esigenza di ossigeno, città dove natura e luce sono abbondanti come l’ombra e le tensioni sociali; città in transito, che da una parte accelera e dall’altra frena, al centro di troppi interessi e cambiamenti repentini; città del Sud baciata dal sole e bagnata dal mare, scenario di una politica di sviluppo molto costosa, dove la questione della gentrificazione è chiaramente opportunità ghiotta per speculazioni edilizie e disinteresse per il cittadino.
Ma più della scorza da film impegnato sul fronte dell’educazione civile, segnato com’è dalla presenza totalizzante dell’utopia urbanistica del suo protagonista (Arlaud è forza e limite dell’intero progetto perché, inevitabilmente, toglie fiato ad alcune figure collaterali decisive per l’esito del suo travaglio interiore come Sara Adler relegata ai margini), in Beating Sun è politica e altrettanto utopistica la provocazione che accompagna lo spettatore di fronte alla convinzione che la strada da percorrere sia più importante del risultato finale. In un film segnato dalla morte, dalle cadute, dai vuoti, dalle rinunce e da una sostanziale apologia della sconfitta in virtù della dignità – come sosteneva Borges – a risultare sovversivo è lo sguardo sul mondo completamente inclinato verso i perdenti. E l’immagine dell’albero piantato nella piazza, segno verde e fragile di speranza nel grigio duro del cemento, illuminato da un sole battente e circondato da incognite e attese, ne è plastica rappresentazione in quanto racchiude simbolicamente gli sforzi e i rischi affrontati da Max ponendosi come ideale rilancio e parziale conclusione di un discorso di vitale importanza collocato tra resa e resistenza, apertura e chiusura, con cui ciascuno, prima o poi, è chiamato a fare i conti. Per tornare ad alzare gli occhi su un cielo aperto.