Il vagolare di Terrence Malick non necessita nemmeno più di libertà, il suo filmare in assenza di gravità appare tanto etereo e destrutturato da influenzare con la sua ingenuità la condizione stessa dello spettatore, le sue attese strutturali, la pulsione ordinativa con la quale ci si accomoda davanti a un film. Qui, in Song to Song, c’è Austin: la sua scena musicale live, i festival e le pop star, le architetture moderne, lo street food, la cintura verdeggiante e poi le formazioni rosa di Enchanted Rock, cieli tersi e luminosi che si riflettono in pozze d’acqua, e agglomerati di corpi radunati sotto i palchi delle rockstar, Patti Smith, Iggy Pop, Flea dei Red Hot Chili Peppers… Su questo scenario si muovono come sliding doors le figure quasi astratte di tre (poi quattro) amanti, personaggi scaturiti dal setting musicale ordito da Malick: BV (Ryan Gosling) è in cerca di successo assieme alla sua compagna cantautrice, Faye (Rooney Mara), e lo trova grazie alla complicità con Cook (Michael Fassbender), che gli fa da produttore mentre ha una relazione segreta con Faye. Nel triangolo poi subentra Rhonda (Natalie Portman), una cameriera rimorchiata da Cook, che si intromette tra lui e Faye…
Tutto slitta su tutto, nel solito processo di smaterializzazione del divenire narrativo che Malick ha ormai codificato in questo cinema d’istinto, in cui la fotografia di Emmanuel “Chivo” Lubezki disegna la realtà senza remore per la luce (mai sottoesporre è la regola sul set di Malick), ingollando colori, riflessi sulle lenti, controcampi arditi. Gli attori sono libellule che fraseggiano con lo spazio, e alla fine abbiamo assunto questa condizione innaturale del recitare cinematografico, tradizionalmente settato sugli “stand in”, come qualcosa che appartiene a questa gloriosa “diversità” del cinema malickiano, alla sua infantile trascendenza. C’è qualcosa di primario nel cinema in assenza di cinema assunto da Terrence Malick che ha una valenza sempre più ipnotica, disarmante, capace di destrutturare le attese stesse dello spettatore e di fargli abbassare la guardia. Il suo pensare il proprio cinema come il primo sguardo dell’uomo sulla terra non ammette più malizia né repliche, si prende o si lascia, ormai, con serenità, senza discussioni intermedie. Ma infine resta nella sua immediata evidenza, sospeso a mezz’aria tra le poche righe di sinossi che, parossisticamente, gli addetti stampa sono costretti a rilasciare e il fluire costante di immagini che precedono qualsiasi narrazione. Se consideriamo lo spettro di reazioni con le quali, come spettatori malickiani, abbiamo fatto i conti dal 2011 di The Tree of Life al 2017 di Song to Song, resta la sensazione precisa di un’assuefazione quasi ludica e ilare, gioiosa, a un assetto livellato del filmare, a un progressivo annullamento di qualsiasi attrito narrativo, di ogni torsione che non sia quella dei corpi fluttuanti in libertà dei protagonisti. Rispetto alla pertinace e tronfia verticalizzazione di The Tree of Life, film totemico, per eccellenza, tra pulsioni d’aldilà e tensioni patrilineari, l’approdo di Song to Song (che è conseguente a Knight of Cups e esattamente complementare alle capriole Imax di Voyage of Time) consegna la pentalogia malickiana a una progressiva liberazione della forma. Niente di particolarmente teorico, sia chiaro, semplicemente la spinta lustrale di un filmare che cambia pelle e lascia indietro le sue vecchie spoglie (chi è, Rooney Mara che si sofferma sul dipinto in blu di una pelle di serpente in una scena di Song to Song?..). E quel che resta è un film orizzontale, la sensazione di sganciamento da ogni geometria che non stia per terra, scalza, priva di teoremi e corollari, scaduta a ogni filosofia che non sia quella elementare delle domande primarie (chi sono? Da dove vengo? Dove vado?) che, per la gioia dei detrattori (ci siamo passati…), continuano ad affiorare negli inutili dialoghi di questi film, che in realtà sono concepiti come muti, semplici lallazioni di un cinema che ha ritrovato l’infanzia del filmare.