Come sempre Shyamalan è il gestore straordinario di un immaginario che disarciona il cavaliere e lo appieda sul più bello, lasciandolo sguarnito sul campo di battaglia, alla pari con gli altri players, forzatamente disponibile a un corpo a corpo fatto di colpi inattesi ma inferti in un gioco tra simili: in Split ancora una volta il narratore è la narrazione e, tra il piccolo Kevin Wendel Crumb che si nasconde alla madre sotto il letto, e la Bestia annunciata dalle 23 personalità che il ragazzino ha cresciuto in sé, non è tanto un gioco tra unità e molteplicità. In Split la narrazione è il corpo, l’incarnazione di un essere multiplo che assomma non solo biografie ma anche biologie dell’Essere: Kevin Wendell Crumb e poi Dennis, Patricia, Hedwig, Barry, Orwell, Jade sono le figure di un role-playing in cui il soggetto stesso della narrazione sta lì, dietro il vetro dello specchio oscuro, a guardare in attesa. O, se preferite, i capitoli di una fabula spinta verso una fine che non è un’uscita. La tensione è labirintica, disorientata nel magnifico spiazzamento che Shyamalan impone all’equilibrio stesso del film: parte dal germe “normanbatesiano” della personalità multipla per instaurare un regime normativo e realistico al quale ovviamente sfuggire nello spostamento progressivo della narrazione.
Ci sono le tre ragazze rapite dal maniaco e segregate in un mondo a parte, ma Split non è un oggetto classificabile come sembra, e non solo perché lo guardi sino alla fine credendo di avere tra le mani uno psycho thriller, ma poi arrivi all’ultima inquadratura e, nel batter d’occhio di pochi gradi di carrellata, ti accorgi che è proprio qualcos’altro… Il sequestro di Casey e delle sue due compagne non è il baricentro del dramma, questo non è tanto un film su una sparizione quanto su un’apparizione, non è questione di corpi virginali sottratti al mondo quanto di attesa messianica, di tempo quaresimale ed avventizio. L’intrusione nel magmatico prospetto psicologico del villain è la traccia inversa di un plot che mostra di procedere per separazioni tra personalità, lavorando di discernimento nella stratificazione di figure nel suo corpo, in cerca di un’uscita dalla trappola sotterranea in cui ha spinto Casey e le sue amiche. In realtà Shyamalan attraversa il gioco simbolico del suo film come fa sempre, tradendo la sostanziale verità cui finge di affidarsi per smascherare le remore fittizie di un universo che trova la sua definizione nella logica della narrazione. La potenza di Split coincide con la sua capacità di essere chiuso nella tensione di figure egualmente isolate, recluse in se stesse: Kevin e le sue 23 personalità, Casey col suo presente disadattato nel trauma su cui sin dall’infanzia s’è strutturata, la dottoressa Fletcher che non sfugge mai alla rete dei suoi pazienti… Nessuno è davvero libero, ogni personaggio è contenuto nell’altro come in un gioco di matrioske e nella relazione con l’altro mostra una parte di sé. Ma su tutti c’è il tempo dell’avvento, l’attesa incombente del corpo che tutto contiene e tutto rivela, la Bestia in cui lasciar confluire l’identità di ognuno e, prima fra tutte, quella del film stesso. Shyamalan sposta in avanti la verità, la ricolloca nell’altrove di un rapporto inverso tra personaggi elevati a potenza, mai davvero liberi di muoversi, prigionieri di un equilibrio complessivo delle cose che li sovrasta. Qualcuno incombe, e quel qualcuno non è solo la Bestia…