Stupire, non umiliare: Diva Futura di Giulia Steigerwalt, storia di Schicchi a Venezia81

«Stupire, non umiliare» è il mantra ripetuto da Riccardo Schicchi alla sua segretaria Debora Attanasi per qualificare la propria arte e distinguerla da quei prodotti scadenti e beceri che andavano sempre più di moda nel porno. Ma è anche un monito rivolto allo spettatore per metterlo in guardia da false aspettative mentre assiste alla sua parabola discendente fatta di luci (molte?) e ombre (tante, senza dubbio). In particolare, questa affermazione risulta decisiva per comprendere il tenore di Diva futura di Giulia Steigerwalt, presentato in Concorso a Venezia81, film che ambisce ad essere o diventare un po’ di cose. Prima sceglie di raccontare le imprese della celebre agenzia fondata dall’impresario romano che rivoluzionò la pornografia italiana creando icone pop; poi vuole rappresentare le contraddizioni di un sistema produttivo che troppo tardi si è messo in discussione seriamente e che, sempre con estrema fatica, ha dovuto far fronte ad un retaggio culturale difficile da scalfire; infine finisce per diventare esso stesso una contraddizione, un paradosso, un cortocircuito nostalgico che salva capra e cavoli e manda tutti a casa contenti, intrattenuti e distratti. C’è una scena precisa che serve da cerniera tra un prima e un dopo, quella in cui Schicchi discute con altri due produttori a proposito di come le sue attrici dovrebbero lavorare, di cosa è lecito e di cosa non lo è, di cosa è arte, di cosa è spettacolo e di cosa non lo è. È una questione di etica della rappresentazione, di confine tra finzione e realtà, tra dolore (vero) e godimento (finto). Il frame sul televisore è esplicito e racconta di un mondo nuovo che presto diventa modo nuovo di fare le cose, cioè approssimativo, superficiale, cafone. Regole nuove, risultati vecchi, ciò che conta è solo il denaro.

 

 
Vertice di un sistema retorico che il film coltiva e sostiene per legittimarsi, quindi il mantra si collega a questa immagine per rivelare lo schicchipensiero, in bilico tra farsesco e tragicomico. Biopic che amalgama materiale d’archivio a inserti artefatti, è prodotto dalla Groenlandia di Matteo Rovere, Rai Cinema, Piper Films e da Netflix, presenza che si sente, fondamentale per conferire quell’aurea pop e mesta ad un prodotto che ambisce a scagliarsi contro il perbenismo e le ipocrisie di una società addormentata, ancora incapace di voltare pagina e ancorata a quell’idea forte che in Italia tanto andava di moda all’inizio della seconda repubblica, e di cui il film si vanta di essere portatore sano: amorali sì, immorali mai. Tratto dal romanzo Non dite alla mamma che faccio la segretaria della stessa Attanasi (interpretata dalla brava Barbara Ronchi), il film guarda a Schicchi come ad un rivoluzionario della cultura di massa avendo trasformato l’utopia hippy dell’amore libero nel fenomeno commerciale e artistico del cinema porno ed essendo riuscito a fare sorgere stelle divenute icone popolari come Cicciolina, Moana Pozzi o Eva Henger. Figura picaresca, in bilico tra il cialtrone e il visionario, burattinaio colmo di tic, ossessioni e insicurezze, lo Schicchi interpretato da Pietro Castellitto (bravo) è funzionale ad un racconto pirotecnico che sceglie di intrattenere e ammaliare il pubblico a tratti con più di un momento divertente e leggero, a tratti promuovendo una riflessione seria sulla condizione e lo sfruttamento dell’immagine femminile nella società del tempo. Al netto di semplificazioni e forzature che vanno ad edulcorare un mondo opaco e una vicenda torbida, concessioni e licenze poetiche che vanno a delineare un ritratto apologetico di Schicchi, celebrato come un vero e proprio amante della libertà, il film avanza il timido tentativo di raccontare oggi i tabù di ieri che, a ben guardare, forse, sono rimasti gli stessi.

 

 
Il ritratto rocambolesco e malinconico di questa manciata di personaggi un po’ tristi, un po’ arrabbiati segue lo sguardo apparentemente imparziale della regista Giulia Steigerwalt, in virtù di quella amoralità auspicata più volte da Schicchi. Anche se non tutte le distanze sono registrate e rispettate (vedi il frame di cui sopra ma non solo), e anche se il film procede spedito sempre con piglio ruffiano, ha il pregio di smarcarsi da un unico punto di vista e abbraccia una coralità che sorprende perché interessata a dipingere l’evoluzione, le ricadute, i dubbi e, soprattutto, il desiderio di riscatto di un gruppo di donne che vuole restituire una nuova immagine di sé. L’effetto è straniante un po’ cotonato e un po’ glitterato, innocuo anche se intelligente, più furbo che coraggioso, ma riesce a porre più di interrogativo sulle responsabilità del pubblico e dell’industria che ha alimentato il mercato, il gusto, un certo modo di fare e pensare. E, come dichiarato dalla Steigerwalt, «se per certi versi questi si sono battuti per la libertà, paradossalmente hanno poi contribuito con il loro lavoro a normalizzare qualcosa che va contro la libertà della donna stessa, ovvero la mercificazione del corpo femminile». Ma alla fine di tutto, quello che resta dopo la morte e la fine dei sogni, è il ricordo allegro di una festa in spiaggia. Un paradiso.