Sono l’Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti dove danza
il languore del sole in uno stile d’oro.
(Verlaine, Languore)
Fuori da equivoci, almeno Suburra dice onomasticamente la sua filiazione, la sua attinenza a un territorio cinematografico ben circoscritto, cioè i vasti suburbi del genere: quello italiano degli anni Settanta, il cosiddetto poliziottesco (aggiornato magari nella breve fuga in suv di Viola che sbaraglia auto in clacson), e quello americano che negli anni Ottanta si lustrava gli occhi con specchi, vetrate in plexiglass su piscine o rive di mare, nudità stagliate sullo sfondo di un’alcova, tra Mann, Friedkin, De Palma, almeno. Ed è dentro questo contesto che va considerato, non a confronto con un cinema “del reale”, o peggio, di denuncia, anche se il referto che presenta non è affatto implausibile (basti pensare alla gamma psicologica che dà consistenza a Pippo Malgradi), anzi sembra essere lucidamente al passo con una modernità renitente, non tanto liquida, quanto luccicante, plasticosa, tutta tesa al godimento ottuso, effimero dell’abbaglio da neon, da led soffuso; del consumo dell’elemento corrusco, sovraesposto, tipico dei luoghi di sfrenamento di massa, indifferenziali, a discapito di quelli tipici, connotati, quell’oleografia che prevederebbe colossei, fontane di trevi, campi dei fiori, a fronte di un accento che è marcatamente romano e scandisce il tempo del sincretismo, dello scenario spurio, tra folklore e postmoderno violento, rappresentato dai club, i saloni di bellezza, gli ipermercati. Uno spiegamento visivo vigente in superficie, sulla patina, la laccatura delle camere d’hotel, degli ascensori di acciaio riflettenti uno Spadino con cappello alla moda che sostiene un cadavere involto in un pellicciotto bianco; i candelabri e i marmi delle ville degli zingari; che non manca di svelare il proprio risvolto opaco, la violenza più efferata (in una reazione a catena), diretta conseguenza dell’istinto al consumo compulsivo, e all’identificazione con la superficie degli oggetti fluorescenti. Ma anche un compiacimento di Sollima, un manierismo per la patinatura, per un’immaginazione che cerca la sua sintesi folgorante nel figurale, fermo, impresso nel lucore, nell’illusione di una sua perfezione erotica, epica; nella posa dei corpi pieni, turgidi, e in una sorta di estetica della posa.
Questa sintesi è amalgama di synth: resine acriliche, prismatiche di rivestimento; i neon fucsia e blu del Dubai cafè e del club di N.8 atti al consumo sfolgorante; le pareti rosa della camera dell’orgia, che si ripetono in negativo nell’obitorio bluastro (con luce rosa alla finestra proveniente chissà da dove) e nel salone di bellezza in cui Viola ricontestualizza, con la sua specifica, straordinaria complessione (quasi cyberpunk, ma tradendo sempre, sincretisticamente, la propria romanità), il topos della donna-killer; e la musica degli M83 (Wait, Midnigt City, We Own The Sky), un synth-pop etereo, riverberante e mediamente liquido che funziona da malta di una materia video-sonora in cui la figura umana si staglia nella sua inconsunta, carnosa avventura: Viola che appare quasi sempre di spalle, poggiata al vetro, innervata dalla musica, con la tornitura delle cosce, dei polpacci, delle natiche che riempiono i contorni dell’affettazione controluce; o Malgradi, tutto nella sua carne, incastonato in quel rosa lucente in attesa dei corpi patinati delle due prostitute. Sono figure in posizione, in due dimensioni, come in una pagina di «Nocturno» (ecco allora il discorso intorno al feticcio, l’estetica, le ragioni del genere in cui oggi, in Italia, un film come questo va congruentemente a collocarsi): spesso profili che annullano la profondità di campo e costituiscono le coordinate per una plastica contemporanea, un neodecadentismo di massa che dalla sua stereotipia riverbera referti e in cui nessuno è più al sicuro.