Torino 38 – Al largo di Anna Marziano e le forme del nuovo umanesimo

C’è un cinema silenzioso, fatto di costruzione di idee precise, di percorsi esistenziali che diventano momenti di creativa vitalità. Ci sono autori che utilizzano il cinema come tableau vivant della loro vita, dove nulla si mette in scena, ma è la vita stessa che sembra camminare parallelamente al cinema per farlo diventare naturale approdo di una elaborazione, resoconto finale di una congerie disordinata di pensieri, che il cinema, come la scrittura, provano a mettere in un ordine possibile. Ne abbiamo anche in Italia di questi autori per i quali il cinema diventa strumento di conoscenza e non forma di diffusione della conoscenza, una di loro è Anna Marziano, padovana, ma francese d’adozione. Abbiamo conosciuto il suo cinema concettuale, ma né saccente, né onnisciente, alcuni anni fa quando questo stesso Festival nel 2012 ci ha offerto la visione di Variations ordinaires, un breve saggio antropologico sulle trasformazioni urbane e sulla loro percezione attraverso l’osservazione e l’ascolto della collettività cittadina. Da quell’epoca abbiamo seguito la sua evoluzione autoriale e abbiamo potuto conoscere il suo cinema che è naturalmente intimo, sebbene aperto e disponibile ad un largo ascolto e, per contrappasso, ad una sua larga fruizione, nonostante l’elevato grado di teorizzazione che quelle immagini contengono. In questo il cinema di Anna Marziano è perfettamente aderente ad una certa idea di femminilità connaturata all’azione stessa del fare cinema, ma ciò che soprattutto abbiamo sempre apprezzato nel suo percorso silenzioso è la sua capacità di conferire al cinema, o meglio alle sue immagini, la necessaria astrazione che rende leggero il rapporto dello spettatore con quelle immagini, ma al tempo stesso composito il rapporto con la loro formazione che si percepisce essere frutto di un viaggio né semplice, né ordinario, per rimanere in tema.

 

 

Dopo quel film citato, che non è il primo della sua filmografia, è arrivato Al di là dell’uno, un film che utilizzava in parte lo stesso registro di quest’ultimo e nel quale si lavorava sulle relazioni personali osservate nelle loro progressive mutazioni. Con Al largo (Premio speciale della Giuria), sulla scorta dell’esperienza precedente, il cinema dell’autrice diventa più marcatamente personale, più strettamente familiare, nonostante il suo sguardo sembra sia ancora più largo (un titolo evocativo che richiama l’elemento acquatico, come forma iniziale delle cose) e dedicato quindi ad un orizzonte ancora più vasto. Al largo è un film sulla malattia e sulla guarigione, una riflessione sulle possibilità del corpo, ma anche una suggestione visiva che riflette sensorialmente, attraverso la scomposizione e ricomposizione sistematica dei montaggi di figure immaginarie, sulle ulteriori possibilità, sulle ulteriori mutazioni. Un lavoro già collaudato in Al di là dell’uno di cui questo film sembra essere una ideale prosecuzione. Se in quello vi era la ricerca di relazioni umane che superassero la critica stretta della singolarità umana, una ricerca che diventava creazione di suggestioni ulteriori per una infinità possibilità di altre relazioni da intessere, questo sembra volere scrutare un altro orizzonte composto da quella umanità affranta dalla malattia, ma liberata dalla guarigione o negata dalla scomparsa.  Anna Marziano con il suo umanesimo modernamente inteso, ma dichiaratamente filtrato da precise fonti di elaborazione del pensiero, prova a dare forma ad un’anima che dia luogo ad una spontanea solidarietà che già di per sé è lenitiva del dolore. Una solidarietà che parta dagli affetti familiari per farsi concentrica e allargata forma di resistenza e di ricchezza nelle relazioni personali. Anna Marziano con questo film dal titolo così beneaugurante, ma al tempo stesso carico di un naturale sgomento, riflesso di un mare evocato che promette avventure, ma che al tempo stesso non mostra più orizzonti, compone storie e le interrompe, lavorando su una naturale frammentazione discorsiva e visiva. Il suo poema intimo e felice è sostenuto da radicate scoperte autoriali da Nietzsche a De Martino, da Montaigne a Winnicot e Freud.

 

 

Un percorso che già da solo è fare un giro del mondo dentro un pensiero che mette al centro quella aspirazione ad un nuovo umanesimo confortato dalle tracce lasciate da una articolata elaborazione a cominciare dai rapporti tra madre e figlia, all’antropologia e alla morte di Dio come riaffermazione dell’umano. Il cinema serve ad Anna Marziano (e a noi) per mettere ordine tra questi pensieri, per trasformare il dato puramente e sterilmente culturale in forma vitale e consueta del nostro divenire. Non è certo semplice il percorso che la regista ci propone, non è certo agevole il suo cinema, che è semplice nella forma estetica curata e quasi maniacale, ma che rappresenta al tempo stesso una complessità che deriva da quella originaria struttura sistematica dalla quale proviene. Si giunge però, pur nella durezza di alcuni passaggi che interrompono il naturale flusso vitale, ad un approdo pacificato che trova proprio in quella ristrettissima cerchia familiare il luogo del riposo, nella contemplazione della figlia il piacere di un divenire. Al largo è l’esempio di un cinema frammentato che sa trovare una sua coesione nell’unità che ricerca e che concentricamente troverà. La regista adotta forme mai consuete e in questo sta la sua originalità, in quella riprogettazione delle immagini come riconsiderazione delle forme espressive disponibili, dei materiali quotidiani e degli affetti più vicini e insostituibili.