«Devo lavorare, posso?», domanda stizzita la moglie Nora al marito Xhafer. Stiamo per assistere all’epilogo di Exile, secondo lungometraggio di Visar Morina, regista e sceneggiatore kosovaro classe ’79, emigrato in Germania all’età di 15 anni. Ormai disorientata per quell’atteggiamento privo di senno che l’ha spinta a mettere in discussione la loro relazione, la donna è esausta, le manca l’aria, si sente oppressa da una solitudine che la schiaccia, abbandonandola al suo ruolo di moglie, madre e ricercatrice; un peso ingombrante, rivelatore di un’assenza affettiva ma anche di un desiderio che risulta incompatibile con la sua condizione. Exile è un film che cattura la frustrazione del singolo per tradurre un incubo più radicato nelle tensioni di una storia che riguarda tutti. Come accadeva in Babai (Padre, 2015), opera prima in cui Morina metteva in scena l’identità della società kosovara a metà degli anni novanta attraverso il figlio Nori nell’odissea per riabbracciare il padre Gezim deciso a trovare fortuna in Germania, pure in Exile è la relazione affettiva, in questo caso tra i due coniugi, a farsi scenario di un conflitto drammatico che racchiude e riflette nei suoi continui chiaroscuri e nei suoi interminabili labirinti emotivi le fatiche e le fragilità di chi non riesce più a sentire gli effetti dell’ospitalità tanto in casa propria quanto sul luogo di lavoro.
Xhafer, ingegnere farmaceutico di 45 anni originario del Kosovo. Vive in Germania, si sente vittima di discriminazione e bullismo sul posto di lavoro per ragioni etniche. Quando Xhafer trova un ratto morto appeso al cancello di casa, è convinto che i colleghi razzisti ne siano responsabili. Ogni fatto, parola e gesto rinforzano i suoi sospetti. Il suo malessere cresce di giorno in giorno. La moglie Nora, tedesca, è stanca di sentirlo parlare di questioni razziali. Forse i colleghi semplicemente non lo apprezzano? O c’è altro dietro la loro ostilità? Tutto questo è solo nella sua mente o è reale? Film di ratti e bambini, corridoi e scale, ombre e sudore, incubi e applausi. Si potrebbe liquidare Exile come un film “sul razzismo” ma quello di Morina non è cinema illustrativo e conciliante perché puntando sulla complessità, attraverso una regia controllata e puntuale, immerge il proprio sguardo negli antri respingenti della mente umana mostrandone le pieghe contraddittorie e instabili. A cominciare dalla scelta del titolo, Exile è un film che si nutre del dubbio: Xhafer è “esule”, in esilio, per scelta sua o a causa di altri? Il film racconta la discesa agli inferi di un carnefice, un uomo disperato e travolto dalle sue paranoie oppure l’ascesa di una vittima del sistema, di un prigioniero che finalmente si riscatta liberandosi dalle ingiustizie subite? Innescando un duplice interrogativo che lentamente si dipana come atroce, anche se sempre calibrato nel rispetto di una sceneggiatura che riserva non poche convincenti sorprese, Exile conduce lo spettatore a impattare con regole chiare ed efficaci già a partire dalla prima immagine quando Xhafer cammina, inquadrato di profilo tenendo nascosto l’altro lato del volto e del suo animo. Morina struttura la messa in scena sui binari della diffidenza e del brivido dopo aver consegnato allo spettatore l’immagine di un uomo pulito, un lavoratore serio, un padre onesto riuscendo a ribaltarne completamente il senso nel giro di poche scene nella toilette aziendale, senza offrire spiegazioni, semplicemente mostrandone le zone meno illuminate.
Il racconto incrocia le forme del thriller psicologico, si unisce agli affondi da indagine sociale, sfocia nel dramma esistenziale (mastica stereotipi, equivoci, inquietudini che ribaltano ogni certezza), fino a raccordarsi con gli estremi di un discorso più ampio volto a estendere un’acuta riflessione sugli effetti di una mancata integrazione e di un’apparente accoglienza. Presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2020 e successivamente alla Berlinale e al festival di Sarajevo, dove si è aggiudicato il premio come Miglior Film, Exile prende spunto dall’esperienza particolare vissuta da Morina ma possiede respiro universale perché si spinge oltre l’autobiografia puntando a catturare e declinare l’arroganza dello sguardo ospitante verso persone provenienti da paesi economicamente più deboli. Il film apre una riflessione meno scontata di quanto possa sembrare in apparenza, come dichiarato dallo stesso regista: «Esiste un senso di superiorità percepito nell’educazione, nella libertà di pensiero e nei modi. Ho scritto il film nel 2016, un anno particolare: l’atteggiamento verso i rifugiati era diverso. Ho avuto la sensazione che il paese stesse cambiando, regnava la paranoia. La mia impressione era naturalmente anche influenzata dal materiale su cui lavoravo ogni giorno. Non ho fatto questo film pensando a una problematica specifica, ma ho cercato di rendere visibili i meccanismi che conducono all’esclusione, così come ho voluto sottolineare quell’incertezza che un po’ alla volta ti cresce dentro». Un film sulla desolazione di uno sguardo imprigionato dalla propria prospettiva che, inevitabilmente rende ciechi su tutto il resto.
La 32ª edizione del Trieste Film Festival è visibile sulla piattaforma MYmovies