Una storia di famiglie: Beetlejuice Beetlejuice, di Tim Burton a Venezia81

Il plastico è ancora lì, così come i volti celebri di Winona Ryder, Catherine O’Hara e, ovviamente Michael Keaton. Fra il capostipite e questo Beetlejuice Beetlejuice (apertura di Venezia81 fuori concorso) ci sono però trentasei anni di vita e cinema, che Tim Burton ha attraversato spesso intrecciandoli fra loro, fino al rinnovato entusiasmo portato dall’esperienza di Mercoledì, la serie tv che gli ha dichiaratamente permesso di affrontare la sfida di questo tardo sequel con maggiore consapevolezza – oltre a portare in dote la nuova protagonista Jenna Ortega. Il ritorno alle atmosfere del 1988 non può dunque che tenere conto della maturità: Lydia Deetz non è più la ragazzina goth che comunica con gli spiriti nell’intimità casalinga, ma ha messo il suo potere a frutto attraverso dei reality show a tema spiritista che l’hanno resa una celebrità. Chi coltiva un carattere più umbratile è invece la figlia Astrid (la Ortega appunto), che soffre per la scomparsa del padre disperso in Amazzonia e, razionale e amante della scienza qual è, non crede al paranormale e coltiva perciò diffidenza e un sordo rancore per la madre. L’evento che porterà le due donne al confronto è la morte del nonno Charles, che riporterà l’intera famiglia nella vecchia casa sulla collina, con la minaccia di Beetlejuice che si farà strada nello scontro filiale. Non che il demone se la passi meglio, beninteso: alle sue calcagna c’è infatti Delores, la donna che aveva sposato e poi abbandonato e che ora è diventata una “sposa cadavere” affamata di anime.

 

 

Una storia di famiglie, dunque, da un regista che ha alle spalle più relazioni interrotte – e in un impeto d’ironia affida il ruolo della sposa tradita alla nuova compagna Monica Bellucci – mentre rimodula il suo immaginario nel segno di un ardore gotico-pop che tiene conto dei rinnovati scenari contemporanei. Lo scontro generazionale e familiare si rispecchia perciò nella cifra analogica di un mondo fatto di effetti pratici e rimandi a un cinema classico (Mario Bava in primis) contrapposto alla rozzezza della televisione e delle dirette streaming. Così come alla contrapposizione fra il mondo dei vivi e quello dei morti, l’uno retto da relazioni complicate, l’altro da una burocrazia implacabile. Tutto è duale in Beetlejuice Beetlejuice, dal poliziotto Willem Dafoe che è anche un attore cinematografico che interpreta uno sbirro, al primo amore che sarà cruciale per Astrid e le farà capire il suo posto nel rapporto fra aldilà e aldiqua. Così come è duale il sequel che rovescia il modello, pur rispettandolo: fra una citazione e un rimando preciso, si fa infatti strada una storia opposta. Non un mondo dove i morti devono scacciare i fastidiosi vivi, ma dove invece i personaggi devono ritrovare la propria umanità, mentre i trapassati spingono per tornare sulla Terra.

 

 

Lineare ma agitato da pulsioni anarcoidi, Beetlejuice Beetlejuice è il sequel rassicurante ma inaspettato che dimostra un entusiasmo contagioso nel modo libero in cui affastella stili e toni: si passa dalla stop motion dei vermi delle sabbie all’animazione in 3D del flashback con la morte di Charles, al divertito omaggio in bianco e nero (e recitato in italiano!) alle atmosfere gotiche della Maschera del Demonio in un’altra delle tante digressioni. Se la palette cromatica si sbizzarrisce, lo stesso fanno le atmosfere, che uniscono un certo gusto per la materia organica esibita (sangue, vomito, fluidi e interiora che scoppiano) e gioiosi numeri dance con una colonna sonora ricercata, dallo score di Danny Elfman ai Bee Gees, fino al programma televisivo anni Settanta Soul Train. La confort zone del più classico immaginario burtoniano e i sotterfugi dello spiritello porcello resterebbero però materia inerte se non fossero al servizio di una storia modulata e che respira di una sua autenticità. Tim Burton aveva dichiarato di voler terminare la carriera dopo Dumbo e qui uno dei suoi protagonisti afferma di non volersi vestire come un personaggio Disney: la chiosa d’autore perfetta per una prosecuzione che rivendica la libertà di avere qualcosa da dire, oltre la logica stringente dei franchise.