Chissà se a Orson Welles sarebbe piaciuto sapere che il suo ultimo film è diventato finalmente un film. Forse avrebbe preferito la leggenda, il mito. Famigliari, amici e suoi collaboratori si dividono su questo, come su qualsiasi fatto o giudizio, pur condividendone l’esperienza. Ha detto o non ha detto che “un film finito è un’opera morta”? Ha detto o non ha detto che “l’insuccesso è il miglior finale”? E se lo ha detto, diceva o non diceva cosa realmente pensava? Eccoci già in trappola. Il ragno ha tessuto la sua tela invisibile e non ci siamo accorti di esserci rimasti invischiati. Non è questa l’opera per eccellenza di Welles, sin dal suo esordio radiofonico con La guerra dei mondi (1938)? Sino a fare della sua stessa vita un’opera vissuta ad arte? Perché allora non tentare quellapiù estrema? La realizzazione di un film che fotografi nient’altro che la volontà stessa di fare un film, ancora prima di aver deciso quale film fare, in un gioco di specchi (La Signora di Shangai del 1946) che precede il pensiero stesso. Un film non nato, la genesi stessa di qualsiasi idea, analizzata come luce bianca perduta e scomposta dentro un prisma. Un film che quindi si faccia da se, fuori dal controllo dell’autore. Un film che abbia nel regista solo “colui che presiede agli imprevisti”, un deus ex machina che non possiede la macchina del destino, ma si preoccupa solo di tenerla in moto.
Un’opera mostruosa, che forse non andava terminata, che forse il suo autore voleva impossibile e incompiuta e che si ha la sensazione oggi, ultimata, di vederla offesa. Quasi fosse un Golem (per tornare al film di apertura del festival) che una volta azionato non può che distruggere il suo padrone. They’ ll Love Me When I’m Dead di Morgan Neville è fuori concorso alla Mostra, ma è indispensabile per capirci qualcosa nel guazzabuglio di The Other Side of the Wind. E se è vero, come suona il titolo del documentario, che Orson Welles voleva essere amato solo dopo morto, il film di cui si parla doveva restare incompiuto. Lo spettatore non può amarlo, come non poteva amare il cittadino Kane pur restando incollato allo schermo a chiedersi chi o cosa fosse “Rosabella” (Citizen Kane del 1941). Questa volta il nemico, l’industria dei media, non è il protagonista diretto, bensì è lo sfondo. In primo piano ci sono le sue vittime, attori registi procuratori vari di affari. Il film inizia nel 1970 e per quanto sia evidente che Welles voglia parlare di se e del suo rapporto con Hollywood, rinuncia a farlo in diretta e al suo posto troviamo un famoso regista J.J. , detto “Jake”,Hannaford, che è invece John Huston, che è invece Orson Welles, che però spaccia per sua la data di nascita di Hemingway. A moltiplicare gli specchi c’è questa festa di compleanno nel bel mezzo della lavorazione di un film molto colorato e di genere soft porno (quali veramente girava Oja Kodar, musa e compagna in quel periodo di Welles, e nel film ci sembra di aver visto di sfuggita un giovanissimo Ron Jeremy, attore pornografico della prima ora).
Iniziamo vedendo le scene girate con Oja Kodar (tutte a sfondo erotico, se non di sesso esplicito anche se non visibile, come la scena in auto lunga 7 minuti), la loro riproposizione in proiezione per Frank Marshall, che oltre ad essere il vero produttore del film, vuole realmente giustificazione del ritardo, e che non si sa ancora oggi se a metà lavorazione sia sparito con il finanziamento, come diceva Welles, o se invece non si fosse ritirato dall’impresa per non perderne altri. Vero protagonista di tutta questa vicenda è Peter Bogdanovich (con cui Marshall esordisce come produttore nel 1973 con il film di successo Paper Moon), a cui Welles lancerà come una maledizione chiedendogli di ultimare il film se lui fosse morto. Peccato che Bogdanovich non solo entri a sostituire il suo Doppelgänger, un imitatore televisivo che si era reso disponibile a patto di non lavorare più di tre settimane, ma si trovi coinvolto in una parodia di sé che con il suo ingresso in scena si trasforma in farsa di se stesso, descritto come un giovane regista di scarso talento, troppo preso dall’idolatrare il suo maestro “Jake” Hannaford. Lo vediamo maneggiare i nastrini della sua vera intervista a Welles e parlare ai giornalisti e ai curiosi della vita di Hannaford-Huston-Welles, mentre il regista lo ascolta divertito parlare di se, bevendo, ridendo, confondendo le acque.
Dal documentario, ma anche dalle prime parole introduttive del film, si apprende che Welles si sia realmente preso gioco di lui in un talk show televisivo, dopo anni dedicati a intervistarlo, come aveva fatto Truffaut con Hitchcock. Ed è proprio la nouvelle vague uno dei motori del film incompiuto di Welles. Per i giovani registi degli anni ’60 Welles era diventato un mito, un regista anti Hollywood, senza peccato e senza macchia (molti attori e tecnici di Hollywood non la pensavano allo stesso modo e ritenevano che fosse lui ad averli abbandonati, non difendendo sino in fondo i suoi film dopo l’ultimazione delle riprese e del primo montaggio, avendo invece il potere). Tutto il film è anche un corteggiamento di Welles ai suoi idolatri, vi troviamo dentro Chabrol e Hopper, a interpretare se stessi come ospiti del compleanno di Hannford alias Huston alias Welles. L’idea stessa del film improvvisato, del film nel film del film, non solo risente del desiderio di camera stylo di quella stagione, ma si avverte anche la fastidiosa sensazione di un Welles che vuole riprendersi un posto d’onore e diventarne il guru. Le concessioni al cinema di serie B, come quelle ad Antonioni (la casa della festa è gemella a quella di Zabriskie Point), sembrano indizi per un’ipotesi del genere. La lavorazione del film, iniziata nel 1970, andrà avanti per tutti gli anni ’80, sino alla morte di Welles nel 1985. Nel frattempo i soldi provenienti dal cognato dello Scià di Persia vanno persi perché in Iran scoppia la rivoluzione khomeinista. O questo vorrà far credere Welles. Intanto anche la nuova Hollywood è radicalmente cambiata, Spielberg non è più quello dello Squalo (1975) bensì quello degli extraterrestri e di Indiana Jones. Welles prende a frammentare sempre più il girato, realizzato con dialoghi ad anni di distanza, dove Welles inizialmente lanciava delle battute fuori campo ai vari invitati, per poi tornare, a distanza di mesi se non di anni, a riprenderle con Huston (spesso impegnato in altri suoi film, questi sì di successo). Intanto lo stesso Welles aumenta le proprie partecipazioni come attore a qualsiasi film gli si proponesse, pur di recuperare altri fondi. Negli Studios di Hollywood riesce spesso a entrare con la troupe clandestinamente, e l’impresa coinvolgerà in modo particolare Gary Graver, tanto che alla morte di Welles questi dichiarerà che non avrà più nessuno a cui chiedere cosa fare quella mattina (anche lui finirà per lavorare nell’industria pornografica con lo pseudonimo di Robert McCallum). Il film nasce da una telefonata di Graver a Welles, lui appena tornato, dopo decenni, a Los Angeles e avendo preso stanza al Beverly Hills Hotel. Per Welles è la conferma che la nuova Hollywood lo stia aspettando e gli risponde che anche Citizen Kane era nato da una telefonata di Gregg Toland, il direttore di fotografia, e che poteva recarsi quindi subito da lui e iniziare le riprese. Cosa ovviamente sconvolgente, sia per la disponibilità verso un operatore con nessuna credenziale sia perchè non c’è ancor nessun film da girare. Ma il gioco Welles lo amplifica ancora di più, facendo in modo che la notizia si diffondesse e invitando chiunque ad andare sul set, con qualsiasi mezzo, dal 16mm al Super8 o alla macchina fotografica, per partecipare con le proprie riprese ad un film già pensato multi standard e multiangolo, portando ad un accumulo di materiali davvero impressionante, tagliati poi al montaggio per farne tante piccole schegge senza mai una dichiarata continuità. E come nella scena degli specchi della Signora di Shangai gli specchi sono andati in frantumi e non sappiamo più chi e dove stiamo guardando. Il gioco si ripeterà presto su Netflix che ha finanziato questo progetto, in standby da almeno cinque anni. Perché gradevole o no Welles fa sempre notizia, e Venezia lo ha dimostrato.