VENEZIA 75 – Ritorno alla Frontiera per i fratelli Coen: The Ballad of Buster Scruggs

Più che il fascino della Frontiera quello delle iconografie western: da tempo, infatti, non si vedeva sullo schermo un racconto di pistoleri così tradizionalmente atipico. Le figure retoriche del genere ci sono tutte, ma l’insieme come sempre è spiazzante: non potrebbe essere diversamente, considerata la mano di Joel e Ethan Coen, che non solo il genere lo hanno già toccato con Il Grinta – e in parte anche con Non è un paese per vecchi – ma che da sempre lavorano anche sugli stereotipi più consolidati, in un esaltante e ragionato lavoro di smontaggio e rimontaggio. Il bello è che la maturità espressiva acquisita negli anni non ha intaccato la voglia di giocare dei due autori, ma allo stesso tempo ha reso le loro carte sempre più scoperte, come la mano che Buster Scruggs accetta di giocare nel primo episodio della pellicola. Quindi il ritorno alla Frontiera è l’ennesima tappa di un viaggio che sempre più si configura come una danza di fantasmi, quasi una parabola sul destino più tragico che attende non a caso i protagonisti, pur nel marasma di riferimenti e cambi stilistici delle storie. L’approdo sotto l’ala di Netflix si configura nella forma di un film a episodi, ispirati a quelli italiani degli anni Sessanta, ci dicono i due fratelli terribili. Che quelli fossero in realtà commedie o a volte horror, più che western, poco importa: il linguaggio delle pistole serve infatti per sperimentare derive che finiscono per sintetizzare un po’ tutte le fasi del Coen pensiero.

 

Il primo episodio, quello eponimo, vede in azione un pistolero canterino tanto abile con la pistola, quanto a sfondare la quarta parete, che sembra uscito da L’uomo dai sette capestri, naturalmente in salsa coeniana: è il segmento più irriverente e divertito e tara l’intenzione di un racconto che alla rievocazione verosimile dei fatti predilige l’iperrealismo. Segue l’odissea del rapinatore James Franco alle prese non con una, ma con due impiccagioni, per proseguire con la dura legge del successo che travolge un uomo privo degli arti, ma dotato di loquela mesmerizzante, salvo poi essere abbandonato dal suo impresario in favore di artisti più remunerativi. Un segmento che unisce un certo afflato dolente a un meravigliato disagio e che perciò segna un po’ lo snodo verso la seconda parte, più ragionata e strutturata, in cui rientrano gli ultimi tre episodi: la ricerca dell’oro da parte del cercatore Tom Waits, la “conquista del West” che diventa un insolito triangolo amoroso fra una colona, un cowboy e… gli indiani che arrivano a sparigliare le carte (e da quanto tempo non vedevamo i nativi americani così “cattivi” e fieri!). E infine l’ultima corsa di una diligenza che arriva a sfociare nel gotico e sembra uscita da un racconto di Quentin Tarantino. Come si può notare, archetipi che più tradizionali non potrebbero essere, ma che i due fratelli rivoltano, ricordando la natura proteiforme di un genere che è stato capace tanto di raccontare la fondazione di un mondo quanto la sua trasfigurazione in possibilità narrativa altra, fino allo sfaldamento delle certezze. Il divertissement riverbera quindi una certa qual pulsione esistenziale che è tipica dei racconti di fantasmi coeniana e ci ricorda come l’opera degli uomini sia soprattutto un lungo dialogo con la morte.