Dopo avere visto Gloria Mundi è ancora chiara la poetica dell’armeno-francese Robert Guédiguian, condensata nelle strette dinamiche familiari o nella piccola comunità di quartiere o addirittura del cortile di quartiere. Una fitta rete di sentimenti, crocevia della sopravvivenza, ancora di salvataggio nei momenti più difficili della vita. Questo ci ha mostrato il suo cinema a partire, soprattutto, dal 1997 quando, sugli schermi italiani, arrivò quel Marius e Jeannette che se non altre affinità possiede con quest’ultimo Gloria Mundi, in Concorso a Venezia, ha in comune gli attori Ariane Ascaride che è anche la moglie del regista, e Gérard Meylan. Anche il rapporto con gli attori fa parte di questa poetica che sembra continuare anche al di fuori del set. Come lo stesso Guédiguian ha dichiarato, gli attori dei suoi film sono una specie di compagnia teatrale con la quale prosegue il suo giro di racconti di legami familiari, compositi, contraddittori, in aperta collisione tra loro, a volte, ma sempre risanabili, nel nome di una autenticità di quei sentimenti e di una necessità di quei legami e anche nel nome di una solidarietà di classe che comunque costituisce elemento connaturato al cinema del regista, per quanto non immediatamente evidente. In Gloria Mundi la geografia della famiglia allargata è il terreno sul quale si giocano i sentimenti, poi Marsiglia con la sua bellezza segreta, il suo mare e il suo eterno sguardo sul mare. Guédiguian non si è mai allontanato da quello scenario e i suoi microcosmi familiari si sono sempre giocati in quei quartieri, più o meno malfamati, in quegli ampi viali che si colorano di una umanità multietnica che caratterizza il volto della città. Ecco quindi che anche Gloria Mundi sembra astrarsi da qualsiasi centralità, da qualsiasi baricentro e tutti i personaggi e la città stessa diventano protagonisti e antagonisti, in un gioco di felice simbiosi e di sovrapposizione dei temi che incrociano la genesi delle storie che Guédiguian ci ha raccontato in questi anni.
Un cinema che sembra non avere subito interruzioni, fratture, da un film all’altro, tanto si ha l’idea, oggi dopo una ricca filmografia, che quelle storie potrebbero vedersi una di seguito all’altra in un unico nastro continuo e ininterrotto in cui lo scenario è quasi sempre quello del lavoro e il cerchio dentro il quale si consuma il dramma è quello familiare. Guédiguian come Loach o, in parte come Lioret, si affida ad un cinema solido, fondato su un realismo necessario, su una salvifica combinazione di relazioni. Qui Ariane Ascaride (Silvye) e Jean-Pierre Darroussin (Richard) sono una coppia consolidata, ma si scopre che Mathilda, sposata con Nicolas, non è figlia della coppia, ma solo della madre. Il vero padre, Daniel (Gérard Meylan), sta in carcere. L’altra figlia, Aurore, nata dall’unione tra Richard e Sylvie, è sposata con Bruno, piccolo imprenditore senza scrupoli, figlio di un neocapitalismo truffaldino e vorace. Quando Mathilda dà alla luce Gloria, Sylvie avvisa l’ex marito in carcere. La sua uscita è imminente e ricucire i legami familiari sarà il suo compito. Ma Mathilda non ha lavoro e Nicolas che prova a lavorare come autista privato è vittima di un’aggressione che gli impedisce di guidare. La soluzione ai drammatici problemi della coppia potrebbe essere quella che farebbe di Mathilda la direttrice della nuova impresa commerciale che Bruno e Aurore hanno creato sullo sfruttamento dei loro clienti, ma Mathilda riceverà una cocente delusione. Daniel si sacrificherà nel nome di una nuova pacificazione. Guédiguian con sensibilità assoluta verso rapporti sotterranei e quasi invisibili che le macrorelazioni familiari creano, ripropone con le sue variazioni e le diverse tonalità, il tema della intricata mappa sentimentale che si sviluppa in questo ambiente esplorandola con la sua messa in scena. Un cinema personalissimo, ma non solo nel clima familiare che si respira in ciascuno dei suoi film e neppure per quell’aria domestica dei dialoghi e per l’atmosfera complessiva che lo spettatore vive, ma personale piuttosto, per una poetica che sembra volere escludere qualsiasi indagine sociologica, qualsiasi intervento diretto di natura politica, alla Loach per intenderci. Piuttosto la politica, quella che si intravede o in piena luce risalta in certi momenti, senza diventare mai protagonista, sembra avere perso gli strumenti per la soluzione dei problemi e tutto resta affidato alla responsabilità individuale. In questo senso il personaggio risolutore del film è Sylvie che si fa carico di quelle soluzioni necessarie per andare avanti e, in seconda battuta, Daniel, corpo sacrificale in nome di una futura pacifica convivenza. Ma tutto scaturisce dalla crisi, economica prima che relazionale e Mathilda e i suoi risentimenti verso Nicolas sono il risultato di questa profondissima incertezza che domina il nostro tempo, che non appaga i desideri in un consesso sociale di consumi necessari. Un mondo in cui, con manichea separazione, si è divisi in vincenti e perdenti, come fanno Bruno e Aurore, senza sfumature, semplificando, ancora una volta, come vuole la dilagante superficialità di giudizio senza alcuna attenzione alla complessità per la vittoria e la sconfitta soprattutto se riferiti ad una vita intera.
I racconti di Guédiguian, compreso Gloria Mundi, sono popolati da personaggi non sono solo vittime di una difficoltà economica profonda e collettiva, ma segnati o pericolosamente votati ad un egoismo esclusivo che in una specie di evoluzione all’inverso colpisce e contamina il cuore vivo di tutte le relazioni. Guédiguian solo apparentemente, quindi, sembra non volere muovere critiche alle strutture sociali, quando invece è il sottile filo rosso che muove i personaggi e determina le loro decisioni. In quest’ottica i temi della gioventù e della maturità come terreno di scontro e antagonismo generazionale, ridefiniscono i confini della responsabilità e della colpa. Come già in Le nevi del Kilimangiaro, anche in questo Gloria Mundi, spetta ai personaggi più anziani assumersi le colpe degli errori del passato, ma anche la responsabilità delle soluzioni per il presente nella assoluta solitudine e nel silenzio di un profondo rammarico. Gloria Mundi arriva dopo le esperienze umane e professionali maturate dal regista e dai suoi attori in questi anni ed è per queste ragioni che l’atmosfera si fa cupa e i personaggi più complessi, più tormentati, come in un lungo racconto dopo le vicissitudini. È così che passa la gloria del mondo, nell’effimero desiderio che non trova soluzione. E Daniel che fissa il tempo con i suoi haiku, dal fondo della propria nuova cella scrive Era inutile strappare/ le lancette del mio orologio/ il tempo non si fermava. Guédiguian non può essere ottimista, il tempo non si ferma e le situazioni mutano, l’insaziabile modernità economica si mangia tutto: vite, sentimenti, uomini, lavoro e va avanti come un rullo compressore, resta solo il rifugio di una cella dalla quale guardare il mondo nel quale non ci si rispecchia più, dal quale nulla più ci si attende se non l’idealizzazione poetica di una breve poesia che sia testimone di questo tempo che ci divora.