Dopo il lavoro e la contrattazione, il ritorno a casa… Youth: Homecoming (Qing Chin: Gui, in Concorso a Venezia81), il terzo e conclusivo capitolo del progetto di Wang Bing, è la scena dei sentimenti, il fragore dei petardi a festeggiare il Capodanno e il rientro dei figli. Ma è anche la scena degli spazi vuoti delle officine contrapposti ai luoghi di campagna, alle strade di montagna, alla neve e agli interni delle case in cui si festeggia semplicemente. Se il primo capitolo, Spring, era quasi ipnotico nel suo stare dentro lo spazio del lavoro/vita dei giovani operai delle fabbriche tessili di Zhili, vicino Shanghai, e il secondo, Hard Times, era dinamico nel raccontare la parte terminale di quella scena, la difficoltà della contrattazione per essere pagati e il ritorno a casa, in Homecoming Wang Bing lavora in profondità. Non cerca la flagranza dell’azione, la frenesia del vivere, l’approccio funzionale dei corpi alle macchine, la ripetitività dei gesti, l’intimità dei dormitori… Qui Wang Bing lavora piuttosto sullo slittamento di piani rappresentativi tesi a cogliere l’interezza dell’esistere, il ritmo della vita reale: non più corpi/macchina, non più tempo di vita/lavoro, ma un insieme organico di fattori che definiscono gli esistenti e ne mostrano l’esistenza. Sono tre i movimenti in cui si strutturano i 152′ di Homecoming: si parte sempre dalle officine di Zhili, che però ora sono spazi quasi deserti, come del resto le strade del quartiere operaio. Solo qualche superstite che non è ancora riuscito a farsi pagare per tornare a casa e sta attaccato al telefono in attesa che il padrone risponda. Gli altri hanno fatto i bagagli e sono partiti, li abbiamo già visti in Hard Times e li vediamo anche in questo terzo capitolo.
Anzi qui li seguiamo lungo la strada che li porta sin nei villaggi sulle montagne dello Yunnan, percorsi impervi e innevati, a picco su dirupi, in cui si incrociano pericolosamente auto e camion che salgono e che scendono. È questo il secondo movimento del film, quello che porta a casa i figli e li consegna a famiglie che attendono loro e il loro aiuto, i soldi per curarsi e mangiare, ma anche la loro forza per affrontare problemi. C’è anche chi si sposa e ha portato a casa dei genitori la ragazza che sarà sua moglie. Wang Bing sta nello spazio dell’intimità con un approccio differente, cerca l’ascolto, crea una maggiore distanza osservativa rispetto alla promiscuità delle officine e dei loro dormitori. I colori sono quelli della natura, terra, neve, cielo, fiamme – niente asfalto bagnato, luci artificiali, esplosioni di colori tessili… Poi c’è il terzo movimento, nel segno della ciclicità, dell’eterno ritorno: di nuovo a Zhili, ancora nel quartiere tessile, questa volta seguendo la coppia che s’è sposata e arriva in città per trovare un nuovo lavoro, anche per il marito, che dovrà imparare a cucire e a usare le macchine. Finisce così Youth, 591 minuti divisi in tre parti, in tutto poco meno di dieci ore di vita di una gioventù cinese che ha scavalcato il concetto di diritti e dei doveri e insiste solo sulla propria verità esistenziale, sulla concretezza di un tempo libero/occupato. Opera somma perché assomma l’esistere di questi ragazzi che Wang Bng ha seguito per anni, il loro spazio vitale e quello esistenziale, l’idea di un filmare che nega se stesso nell’inclusione del tempo di tutte le figure in campo: gli operai, l’autore, lo spettatore…