Può il cinema, quello che si interroga sul presente con sguardo poetico e politico, che racconta lo stato delle cose con la potenza dell’immagine che supera i confini e che diventa urlo senza tempo, come lo sono i grandi capolavori, più di qualsiasi parola, frase, articolo, editoriale di carta stampata o televisione, conferenza, convegno, summit. Di fronte alla quotidiana, oraria, tragedia delle migrazioni due film spiegano l’orrore e la disperazione dell’oggi con precisione sconvolgente. Si tratta de Gli ingannati (Al-makhdu’ûn), che il cineasta egiziano Tawfîq Sâlih realizzò nel 1972, e de La traversata (‘Ubur), girato nel 1982 dal regista tunisino Mahmoud Ben Mahmoud. Andrebbero recuperati, mostrati, fatti vedere e rivedere, tanto ai potenti che governano il mondo e ai loro sudditi quanto ai ragazzi nelle scuole. Gli occhi, le menti, i cuori si aprirebbero. Eppure sembra siano stati dimenticati. E non solo in Italia. Passati in festival e rassegne, sono diventati pressoché invisibili, sono transitati in anni ormai lontani nelle notti di Fuori orario su Rai Tre, ma sono introvabili in dvd. La traversata ebbe una distribuzione in videocassetta con una copertina scandalosa con un enorme teschio in primo piano. Gli ingannati almeno circola su You Tube con il titolo internazionale The Dupes, in arabo con sottotitoli inglesi (https://www.youtube.com/watch?v=pRZzbmNwi8w). Tornano alla memoria quando si vedono le moltitudini di migranti respinte alle frontiere, ovunque si trovino, persone costrette a uno stallo perenne (come narra La traversata, ambientato proprio alla dogana di Dover, specchio di quella di Calais dove sta per essere costruito un ulteriore muro per decisione delle autorità britanniche) o a morire nascoste sotto i camion pur di tentare di raggiungere altri paesi (come descritto ne Gli ingannati). E con il cinema può la parola, quella vera, sincera, nuda nella sua potenza, non filtrata dalla retorica. Quella che fu usata da due bambini in una lettera indirizzata “ai membri e responsabili dell’Europa”. Si chiamavano Yaguine Koïta e Fodé Tounkara, avevano 15 e 14 anni, erano originari della Guinea e morirono assiderati, il 29 luglio 1999, nel carrello di un aereo partito da Conakry e diretto a Bruxelles. Come i film di Sâlih e Ben Mahmoud, anche la lettera è un urlo senza tempo. Vale leggerla o rileggerla.
Gli ingannati
Al-makhdu’ûn (tratto dal romanzo-faro Uomini sotto il sole dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani) è un capolavoro di cinema apolide e senza tempo che, con stile crudo e visionario, con un realismo privato di ogni riferimento didascalico e depurato da una narrazione convenzionale, racconta la disperazione e la tragedia di un popolo, quello palestinese, senza terra (che condensa la disperazione di tutti i popoli espatriati). Un popolo doppiamente abbandonato, tradito dalle istituzioni politiche arabe e invaso, massacrato dai sionisti, come ricorda la voce fuori campo, alla quale, spesso, è dato il compito di descrivere i fatti politico-sociali pre-esistenti, anche in questo caso con un tono espressamente anti-realistico. La scelta di fare un film dove l’aspetto militante scaturisce da un discorso filmico quasi sperimentale ha reso possibile il mantenimento della straordinaria modernità de Gli ingannati. L’inizio, in tal senso, è esemplare. Poche inquadrature sono sufficienti per rendere evidente il dolore della perdita, della mancanza di un territorio, di una patria, che obbliga individui, simbolo di un’intera popolazione, all’erranza. I totali del deserto e gli zoom indietro e avanti su di esso aprono il film, così come i dettagli del sole, l’avanzare lento e faticoso di un uomo, la scoperta di uno scheletro umano (segno ulteriore della lotta di un popolo cui è negata anche la sepoltura), le panoramiche e i carrelli, che si fondono in un gesto semantico unico, fra le piante di un’oasi. Con quest’opera Sâlih ha portato il suo cinema di dichiarato impegno civile negli spazi di una rigorosa ricerca formale, utilizzando al meglio lo zoom e il flash-back che, in questo film, diventano elementi ricorrenti e funzionali nel descrivere, con procedere rapsodico, il delirio interiore e fisico dei personaggi (tre uomini in viaggio verso il Kuwait per cercare lavoro e l’autista che li accompagna). Sâlih usa lo zoom come gesto per sottolineare la condizione drammatica, le situazioni allucinate, e come atto fisico per soffermarsi su dettagli e particolari (soprattutto le mani: quella di un soldato morto; quelle dei tre migranti che si calano nella cisterna, dove per via del caldo troveranno la morte, per nascondersi alla dogana, e che anticipano il braccio e la mano rigidi del cadavere del più vecchio di loro nell’ultima inquadratura, dove i tre corpi senza vita diventano macabre e commoventi sculture tragiche). E usa i flash-back per inserire, come lampi visivi, pensieri, episodi familiari che tornano alla mente di quegli uomini disposti a tutto pur di godere, per sé e per le persone che amano, una vita accettabile. Lo sguardo di Sâlih aderisce al disorientamento, alla paura, alla deriva cui vanno incontro i personaggi. Il film si pone così come una soggettiva di questi stati d’animo e fisici. Il bianconero restituisce il contrasto fra la luce accecante del deserto e i corpi sempre più sporchi e senza forze degli uomini; sa di morte in spazi esterni infiniti o nell’interno claustrofobico della cisterna del camion. A tale proposito, la sequenza nella quale il veicolo fa la sua apparizione è premonitrice di morte, come se sorgesse da un film dell’orrore. Il mezzo destinato a trasportare gli sventurati è avvicinato con leggero movimento circolare, che ne svela il suo denso e minaccioso colore nero e la sua usura, strumento infernale ancora una volta avviato nella ripetizione del suo compito.
La traversata
La traversata è un testo fondamentale per esprimere il contatto espanso con lo sradicamento (culturale, sociale, geografico). Ciò si manifesta a partire dalla scelta di situare il film in un non-luogo – quasi esclusivamente una nave, “in una extraterritorialità obbligata” – e in un tempo preciso (la notte fra il 31 dicembre 1980 e il primo gennaio 1981) che ben presto si dilata nell’infinito. La notte di quel capodanno si trasforma in notte di un qualsiasi capodanno, collocata in una dimensione temporale sempre più sospesa. L’accenno politico-sociale è specifico (gli avvenimenti polacchi), è riferimento a fatti databili ma immediatamente è anche suo superamento perché la situazione che vivono i due protagonisti si fa universale testimonianza di infiniti soprusi e torture psicologiche e fisiche subite. Sono un arabo (interpretato da Fadel Jaziri, che fu tra i fondatori del Nouveau Théâtre di Tunisi) e un uomo proveniente dall’Europa Orientale. Fermati alla dogana di Dover dove sfilano le persone in attesa di entrare in Inghilterra, vengono respinti perché sprovvisti di lasciapassare, ricacciati sulla nave che si sposta fra l’Inghilterra e il Belgio. Inizia così per i due un interminabile viaggio in mare, fra i luoghi d’attesa delle frontiere di Dover e Ostenda e le cabine di un’imbarcazione che si trasforma in prigione. Sono corpi immobilizzati nel desiderio e nell’angoscia, sempre in stretta relazione con la memoria. Sono corpi posti in un confronto-scontro con l’attualità che si riflette trasversale, accennata e per questo caricata di più forte segno politico, e che esiste continuamente in rapporto al tempo passato, alla Storia e alle vicende personali. La terra – fisicamente pensata e vissuta, qualcosa di stabile e di concreto, di sicuro – non esiste più. La nave diventa l’unica terra rimasta per chi non è desiderato – perquisito, picchiato, umiliato, costretto a fuggire, a ripetere gesti in uno spazio ristretto. La patria è stata (e non solo ai due protagonisti) negata. Rimane fissata nel loro sguardo. Spazio interiore. Ben Mahmoud espone al tempo questa lacerazione e lo fa elaborando immagini del dolore, aggrappate alla memoria e al presente, fotogrammi sospesi nello spazio e nel tempo per un cinema trans-nazionale che pone in primo piano l’uomo. Sono corpi immobilizzati nel desiderio e nell’angoscia, sempre in stretta relazione con la memoria. Il viaggio si fa idea di viaggio, percorso non visto da affrontare senza sosta. Confermato dalla frase sulla quale termina il film: “Verranno giorni in cui ti accorgerai che non c’è niente di più terribile dell’infinito”.
La lettera
«Eccellenze, signori membri e responsabili d’Europa, abbiamo l’onore, il piacere e la grande fiducia di scrivervi questa lettera per parlarvi dell’obiettivo del nostro viaggio e della nostra sofferenza di bambini e giovani dell’Africa. Ma, prima di tutto, vogliamo presentarvi i saluti più deliziosi, adorabili e rispettosi di questa vita. Siate il nostro appoggio e il nostro aiuto. Voi siete per noi, in Africa, coloro a cui chiedere soccorso. Noi vi supplichiamo, per amore del vostro continente, in nome dei sentimenti che nutrite per il vostro popolo e soprattutto per l’affinità e l’amore che avete per i vostri figli che amate per la vita. Inoltre, per l’amore e la timidezza di nostro creatore Dio onnipotente che vi ha dato tutte le buone esperienze, ricchezze e potere per ben costruire e organizzare il vostro continente e farne il più bello e ammirabile tra tutti. Signori membri e responsabili d’Europa, è per la vostra solidarietà e gentilezza che noi vi chiediamo soccorso in Africa. Aiutateci, noi in Africa soffriamo enormemente, noi abbiamo dei problemi e alcune mancanze a livello di diritti dei bambini. A livello di problemi, noi abbiamo la guerra, le malattie, la penuria di cibo, ecc. Quanto ai diritti dei bambini, è in Africa e soprattutto in Guinea che abbiamo troppe scuole ma una gran mancanza di istruzione e insegnamento. Salvo nelle scuole private, dove si può avere una buona istruzione e un buon insegnamento, ma dove ci vogliono forti somme di denaro. I nostri genitori sono poveri e ci devono nutrire. Inoltre, non abbiamo neanche scuole sportive dove praticare il football, il basket o il tennis.
Per questo noi, bambini e ragazzi dell’Africa, vi chiediamo di fare una grande, efficace organizzazione per l’Africa per permetterle di progredire. Dunque, se vedete che ci sacrifichiamo e mettiamo a repentaglio la nostra vita è perché in Africa si soffre troppo. Abbiamo bisogno di voi per lottare contro la povertà e mettere fine alla guerra in Africa. Nonostante tutto, noi vogliamo studiare, e vi domandiamo di aiutarci a studiare per essere come voi in Africa. Infine: noi vi preghiamo di scusarci molto per aver osato scrivere questa lettera a voi, grandi personaggi ai quali dobbiamo molto rispetto. E non dimenticate che è con voi che dobbiamo lamentarci per la debolezza della nostra forza in Africa.
Scritto da due ragazzi guineani,
Yaguine Koïta e Fodé Tounkara»