Ced Pakusevskij: L’arte di trasformare un concetto in un’immagine

Il graphic design è diventato a tutti gli effetti un’arte. Non più solo relegato alla pubblicità, spadroneggia nelle sigle dei programmi televisivi, nei concerti dove l’interazione tra l’artista e le immagini proiettate sui grandi schermi crea momenti di grande potenza visiva e sempre più anche nel cinema. Ne abbiamo parlato con uno dei massimi esponenti, Ced Pakusevskij, fondatore e direttore – insieme a Elisabetta Giovi – dello studio Full Scream, art director delle immagini realizzate per il tour psichedelico del 2015 di Lorenzo Jovanotti nonché fresco vincitore di tre PromaxBDA Awards 2017, gli Oscar televisivi che premiano i migliori progetti realizzati per le reti televisive.

 

Quali sono gli ingredienti costitutivi del tuo lavoro?

Direi che le due componenti fondamentali sono regia e design.

 

Da cosa parti per realizzare un’immagine?

La base è la concezione del lavoro, come posso arrivare a trasformare un concetto in un’immagine. A differenza di una persona che fa regia classica oppure documentario o pubblicità il mio lavoro è quello di trovare la gamma giusta e da lì creare un linguaggio visivo che è adatto a quel particolare soggetto. E per farlo si usa tutto quello che è possibile, dal disegno alla fotografia, agli effetti speciali…, insomma tutto quello che potrebbe funzionare. In alcuni casi funziona una semplice immagine, con un editing particolare, a ritmo con la musica, in altri casi funzionano cose che partono, invece, da una linea o da un riflesso di luce e si trasformano in qualcosa con più volume per poi tornare di nuovo nella linea. Dipende tutto da quello che si vuole dire. Il lavoro sta proprio nella ricerca dell’estetica adatta a ogni singolo caso.

 

Sei appena stato premiato per i titoli del programma Rai dedicato ai film di James Bond. My name is Bond restituisce l’universo bondiano pur senza utilizzare immagini dei film dell’agente segreto.

Sì, non sono immagini, ma piuttosto oggetti o situazioni importanti per Bond. È un po’ come produrre una serie di locandine che in qualche modo spiegano i diversi tipi di Bond che, però, devono avere uguale uno stesso look perché quando le si guarda ci deve essere un senso di coerenza. Il nostro lavoro di grafica è sempre contestualizzato, deve risultare immediatamente chiaro, con una forma compatta che si impone con forza in soli trenta secondi.

 

La durata ridotta non semplifica le cose perché in poco tempo devi dire tutto…

Esatto. Bisogna comunque stare attenti perché una persona non riesce neanche a vedere troppe cose in un dato tempo per cui va ponderato tutto. Prendi il simbolo del cuore e di New York (creato da Milton Glaser), il significato è immediato. Se guardiamo un formato video di trenta secondi c’è tutta una storia da raccontare. È un po’ come se fosse un haiku rispetto a un libro, devi ridurre al massimo solo quello che trasmette una certa emozione o una certa informazione e quindi è un lavoro di ottimizzazione e creazione di un simbolo visivo che si risolve in questi trenta secondi.

In un mondo in cui siamo bombardati dalle immagini come trovi l’immagine che si impone sulle altre?

Secondo me la durata ridotta in questo caso può essere un vantaggio, perché in questi trenta secondi, o a volte anche dieci, riesci a spremere bene l’idea, a darle una goccia di soddisfazione, e non devi pensare troppo a come tenere l’attenzione come succede quando fai un lavoro di cinque minuti.

 

Quanto conta la musica in quello che fai?

Direi che fa il cinquanta per cento di ogni lavoro di video, perché davvero se non c’è un audio buono non funziona nulla, non si riesce a creare la suspense. Così come in video ci sono centomila modi di usare apparecchi diversi, trasparenti diversi, ricorrere alla stop motion… anche per la musica è lo stesso, ci sono infinite possibilità: puoi usare soltanto i rumori oppure creare la musica, o fare tre temi diversi, o utilizzare una voce. Un bel mix di video e audio è fondamentale.

 

 

Quanto ci è voluto per realizzare i visuals del concerto di Jovanotti?

C’è stato un mese di preparativi e di ricerche per capire esattamente come affrontare un tema totale e, poi, due mesi di produzione dove oltre ai ragazzi in studio – eravamo una decina -, abbiamo coinvolto altri quindici artisti che facevano diverse animazioni al momento anche perché era il periodo del boom delle animazioni gif sul web e mi è venuto in mente di coinvolgere queste persone perché parlavamo di pop e questa è molt pop oggi  in Internet. È stato un mash-up di cose diverse, dall’illustrazione pura (come per Il più grande spettacolo dopo il big bang) agli adattamenti. Per esempio mi piaceva molto l’animazione gif con un ragazzo con la chitarra che vola, così abbiamo chiesto a questa artista americana di trasformare il ragazzo in Jovanotti. È stato un lavoro incredibile. Confesso che alla fine eravamo abbastanza stravolti.

 

Invece per l’installazione Range hai applicato gli algoritmi all’antropologia…

Il tema del festival era la mappa umana, e ho pensato a come sia la cultura, più che la provenienza genetica, a definire un uomo. Sono le culture che si mischiano e interagiscono a fare la differenza, non le tribù che ci sono. Allora la superficie di colori che si mischia rappresenta tutti questi movimenti delle persone dove in un certo momento si crea come un’isola, che cresce, nasce un’idea più definita che cambia tutta la scena per poi sparire e lasciar spazio ad altre. Era un trip legato a quello che potrebbe rappresentare una mappa per un umano, però era anche un po’ l’opposto di una mappa. Range è stato prodotto usando diversi algoritmi in sovrapposizione per creare questo gioco di colori e superfici. Era su pannelli retroilluminati e il colore era forte, si rifletteva nello spazio creando una bella associazione.