César (Fabrice Luchini) e Arthur (Patrick Bruel) sono agli antipodi. Tanto è preciso il primo, ricercatore all’Institut Pasteur, divorziato da cinque anni, con una figlia sedicenne con cui si ostina a parlare in inglese, tanto è sgangherato il secondo, inguaribile donnaiolo irrisolto. Inspiegabilmente anche per loro («è incredibile che siamo amici, siamo esattamente uno l’opposto dell’altro», si dicono), i due sono grandi amici, grazie all’infanzia passata nel collegio di Sainte-Croix (come vediamo dalle immagini in super 8 che scorrono sui titoli di testa). Quando Arthur, in ospedale per una lastra di controllo, presenta la tessera sanitaria di César, si innesca l’equivoco: César lascia credere all’amico di essere gravemente malato, quando la diagnosi riguarda in realtà Arthur. Quest’ultimo decide di prendersi cura dell’amico, trasferendosi a casa sua e proponendo una lista alternata (quella di César era troppo noiosa) di cose che entrambi vogliono fare prima di morire. Nel corso del film, César prova più volte a dire come stanno le cose – ma il suo problema è proprio di tipo comunicativo, anche con la ex moglie e la figlia – ma ogni volta sopraggiunge qualche motivo per rimandare il momento della verità. Un bromance buonista (si assiste a varie riconciliazioni con il passato) in cui entrambi i protagonisti rimettono in discussione le loro certezze e il loro modo di essere, consapevoli che «per essere amati bisogna prima imparare a conoscere se stessi». La coppia Luchini-Bruel funziona, anche se risulta piuttosto stereotipata, ormai Luchini sembra abbonato al ruolo dell’uomo puntiglioso, severo e rigido, mentre Bruel continua a interpretare il ruolo dello sbruffone, eterno adolescente fuori tempo massimo.
Dagli sceneggiatori/registi di Cena tra amici (Le prénom, campione d’incassi in Francia nel 2012, rifatto tre anni dopo da Francesca Archibugi, Il nome del figlio) ci si aspettava molto di più. Laddove il primo film, tratto da una pièce teatrale dei due autori, risultava una commedia d’interni effervescente nei dialoghi, brillante e originale nella migliore tradizione del teatro boulevardier, interpretata da un cast di attori in stato di grazia, Il meglio deve ancora venire è piuttosto scontato, basato su un equivoco iniziale che si trascina per lunga parte del film e con un improbabile colpo di scena legato al viaggio finale che suona un po’ stonato. Delaporte e De La Pattelière in un’intervista hanno affermato che «dopo la famiglia in Cena tra amici, e la coppia in Papa ou maman [del 2015, firmano la sceneggiatura, mentre la regia è di Martin Bourboulon, anche questo oggetto di remake da parte di Riccardo Milani, ndr.] avevamo voglia di scrivere sull’amicizia. Da vent’anni ci vediamo ogni giorno per scrivere storie come due ragazzini, e la nostra amicizia è parte fondante della nostra vita». Aggiungendo: «Ridere è il nostro solo mezzo di legittima difesa». La loro risata è, però, a denti stretti forse perché ridere della morte non può essere scontato.