Su Prime Video la forza metaforica di Antebellum di Gerard Bush e Christopher Renz

Una delle azioni più potenti compiute nei mesi scorsi dagli attivisti di Black Lives Matter è stata rivolta alla destituzione delle statue costruite per ricordare personaggi che scrissero pagine atroci della Storia americana. Una di queste era dedicata a Robert Edward Lee (1807-1870), comandante in capo degli Stati Confederati d’America dal 1861 al 1865. Un militare sudista all’epoca della guerra civile e della schiavitù. All’immagine del suo monumento sono riservate alcune inquadrature di Antebellum, una panoramica lo inquadra dal basso in alto, immortalato a cavallo, mentre Eden, la giovane donna afro-americana protagonista del film d’esordio di Gerard Bush e Christopher Renz, lo osserva sfidandolo con uno sguardo portatore di indignazione, rivolta, rabbia finalmente esplosa. Perché questo oggetto curioso, narrativamente zoppicante, visivamente fluido (fin dall’incipit con un lungo e movimentato piano sequenza), invita a ricordare, come impresso nella didascalia iniziale e in un dialogo, citando William Faulkner, che “il passato non è mai morto, non è neppure passato” o, volendo ricordare uno dei capolavori assoluti di Haile Gerima, Sankofa, che “bisogna guardare al passato per rivolgersi al futuro”. Bush e Renz si avventurano in questo territorio storico, sociale, politico – il razzismo radicato negli Stati Uniti, la schiavitù ai tempi delle piantagioni di cotone e quella moderna da combattere nelle sue nuove forme, come fa con passione la scrittrice afro-americana Veronica Henley, donna di successo felicemente sposata e madre di una bambina – lavorando su una doppia struttura solo apparentemente distante, creando l’illusione di trovarsi in due epoche separate, confondendo e poi sciogliendo i nodi di un intreccio che appunto alterna soltanto in apparenza gli Stati Uniti di metà Ottocento e quelli di oggi.

 

 

E se un cellulare, quello del militare bianco capo del battaglione privo di qualsiasi umanità, si mettesse a suonare in quella piantagione dove donne e uomini neri sono sottoposti a ogni vessazione? Che sta succedendo? In quale ‘tempo’ e ‘spazio’ ci troviamo precisamente? Bush e Renz depistano. Per quasi metà film descrivono la quotidianità fatta di violenza e soprusi in una tenuta del Sud, i dettagli sono espliciti, Eden (nome contrastante con il suo stato) è una di loro e, nel silenzio, escogita una strategia per fuggire al momento opportuno (con una vera e propria ‘performance’ dal letto al pavimento alla porta della sua baracca). Ma l’inserto centrale di Antebellum, prima che il film si re-immerga negli spazi della piantagione e ne ri-esca svelandone la vera natura, vale a dire il vero set, “tras-porta” Eden altrove o, sarebbe meglio dire, Veronica viene scaraventata in quel mondo “parallelo” che abbiamo già conosciuto dopo essere stata privata della sua libertà (e qui le dinamiche diegetiche scricchiolano, tra suggestioni d’horror con fantasmi e gesti da stalker da parte di una donna bionda nei confronti di Veronica). Se lo sviluppo dei fatti risulta poco credibile, proprio perché infine demandato alla rappresentazione di una “tesi”, l’assunto metaforico è forte se, ancora oggi, un gruppo di persone trova piacere, soddisfazione, passione sadica nel ri-creare pagine vergognose del passato in un parco divertimenti chiamato Antebellum. Oltre il recinto e il cartello che segnano l’ingresso si entra davvero in un altro mondo, un mondo di pura finzione ma tragicamente concreto (non si può non pensare a The Village di M. Night Shyamalan). Non resta che abbatterlo quel palcoscenico dell’orrore, sfidare la statua di Lee e correre lontano in groppa a un cavallo. Eden/Veronica, o Veronica/Eden, eroina/e contro le diseguaglianze, alle quali Janelle Monáe (nella sua filmografia si incontrano altri titoli inscritti nell’impegno civile e nella storia afro-americana: Moonlight, Il diritto di contare, Harriet) offre una convincente interpretazione.