Che siano i college imbiancati nella neve di febbraio o i boschi fiabeschi, le ossessioni che si agitano nelle opere di Osgood “Oz” Perkins non variano mai troppo: al centro c’è quasi sempre un confronto con la solitudine, la perdita, che finisce per permeare l’ambiente stesso e colare addosso ai personaggi. Le figure che portano avanti queste storie sono quelle di donne che si fanno carico di un pesante fardello esistenziale, evidente nel loro agire circospetto, che sembra aver interiorizzato la paura del vivere, anche quando magari il ruolo imporrebbe loro ben altra attitudine – e in effetti spesso quel ruolo se lo sono anche scelto come risposta al panico che le pervade. Accade così anche con Lee Harker, agente dell’FBI che già nelle prime missioni sembra possedere un latente dono di preveggenza, in virtù del quale viene assegnata a un caso difficile: la cattura del serial killer Longlegs che insanguina le strade dell’Oregon da circa un ventennio – l’azione si muove tra gli anni Settanta e i Novanta. Abile nel creare connessioni, ma afflitta proprio da quell’inquietudine del vivere tipica dei personaggi di Perkins, Lee si troverà di fronte a un caso che si intreccia su più livelli. C’è innanzitutto l’andirivieni temporale fra il passato e il presente dell’azione, propedeutico non solo a mappare l’azione del killer, ma anche a indagare il vissuto della protagonista e a compiere la necessaria ricognizione sui suoi timori ancestrali, legati alla famiglia e all’ambiente. Che non è naturalmente solo questione di dinamiche interpersonali interne alle quattro mura della casa natia, ma anche di un sentire diffuso in un’epoca priva di punti di riferimento e perciò in cerca di nuovi e più terribili riferimenti.
Il ribaltamento della prospettiva è in effetti un altro elemento cardine dell’opera di Perkins, la con/fusione fra l’eroina e il Male come elemento da combattere ma da cui si resta in un certo qual modo affascinanti e forse involontariamente complici. Se Lee (forse) non compirà fino in fondo il passo, di sicuro le figure che la circondano sembrano influenzate da questa doppiezza, dalla madre a – soprattutto – il killer che sembra una trasfigurazione del Norman Bates paterno (di Perkins) in una salsa più clownesca. È un film-Psycho questo Longlegs, insomma, che cambia pelle nel corso dell’azione, muovendosi fra i registri e le epoche, fra la detection thriller in stile anni Novanta (quelli di Seven, Il silenzio degli innocenti, Basic Instinct, Blue Steel, Il collezionista di ossa e via citando) e le fascinazioni sataniche e soprannaturali dei Settanta (L’esorcista, La pelle di Satana, In corsa con il Diavolo, Il presagio, Sentinel…), senza uno spirito direttamente citazionista, ma piuttosto di affinità identitaria. Del resto non sembra peregrino immaginare l’opera anche come una elaborazione stessa del percorso personale di Perkins, alle prese con l’eredità paterna, i segreti di famiglia e la necessità di unire i punti. Lee Harker in questo modo si fa metafora dell’autore stesso e del suo tentativo di ricomporre un quadro più ampio, che partendo da una vicenda pubblica arrivi anche al privato, mettendo in fila i pezzi delle varie età della sua vita, dall’inconsapevolezza dell’infanzia, all’età adulta in cui può finalmente raccontare le sue storie e mettere in scena il proprio mondo.
Un’opera-specchio, che si offre allo spettatore con un senso delle atmosfere denso, vischioso, capace di trasfigurare gli spazi in senso espressionista, come a cercare una sintesi tra i bianchi di February e i neri di Gretel e Hansel, sempre in virtù degli interstizi fra opposti in cui l’intera vicenda si muove. In questo, parte integrante dell’operazione è anche l’utilizzo di un cast funzionale alla vicenda, ma in grado di creare le giuste risonanze. La scelta delle attrici protagoniste è da sempre uno dei punti di forza nel cinema di Perkins, da Emma Roberts a Sophia Lillis, e qui confermata da una Maika Monroe che appare ancora oppressa dall’entità di It Follows o dalle invasioni casalinghe di The Guest. È lei a reggere il peso del film, nonostante la presenza di un Nicolas Cage irriconoscibile, istrionico ma inserito in maniera efficiente, altro segnale di una visione che ha saputo tenere insieme tutte le varie direttrici in un risultato affascinante e coerente.