A Matter of Life and Death. Una questione di vita e di morte, nel senso del visionario film di Micheal Powell e Emeric Pressburger del 1946. “Questioni di vita e di morte”. Nel senso del titolo della “carta bianca” affidata a Julien Temple dal Torino Film Festival, dove il regista inglese dall’anima punk e anarchica, rock e cinefila, è stato scelto come “guest director” della trentatreesima edizione. Quella “questione”, al singolare e al plurale, è il corpo – nella sua espressione più radicale, riferentesi tanto a quello fisico di una persona quanto a quello altrettanto fisico della pellicola, sulla quale si sono impressi i fotogrammi dell’età d’oro del cinema, e della carta dei libri – che percorre – in un lucido labirinto di parole e immagini, respiri e silenzi, concentrazione del passato e del futuro nel presente che troppo spesso ci si dimentica di vivere nella sua più naturale consistenza, e che lo si (ri)scopre tale di fronte a circostanze estreme, come quella di una malattia – The Ecstasy of Wilko Johnson, l’opera più recente di Julien Temple che, senza sotterfugi, in maniera esplicita, frontale, eppure immensamente poetica, porta in primo piano quei due elementi così speculari. La vita. La morte. E viceversa.
Come ne Le ragazze della Terra sono facili, commedia di alieni approdati in California, uno dei suoi non numerosi film di finzione (in relazione al materiale musicale, documentario e video, accumulato in filmografia dalla fine degli anni Settanta), Temple tratta Wilko Johnson (per la seconda volta, dopo Oil Food Confidential, del 2009, nel quale narrava la storia della rock band dei Dr. Feelgood, di cui Johnson fece parte) come un extra-terrestre (e il volto del cantante e chitarrista è perfetto…) che si racconta negli spazi della propria terra natia (inglese, ma potrebbe essere un luogo di un altro pianeta, anche per come il regista lo filma, lo filtra con le proprie ottiche elettriche, le illuminazioni metalliche di cielo e mare) giocando, sul bordo della riva, una partita a scacchi con la Morte incappucciata (ironicamente, perché il film è denso di un umorismo nero depistante e devastante, sempre interpretata da Johnson). Il musicista scoprì di avere un tumore incurabile e pochi mesi di vita. Lo sbeffeggiò. Vide l’esistenza diversamente. Fece un tour d’addio, fino in Giappone, dove è un vero e proprio culto. Si salvò. Temple e Johnson ri-fanno la scena più celebre de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Perché la “questione” di vita e di morte si espande e, dall’esperienza vissuta da Wilko, tocca il Cinema e la Letteratura (Shakespeare, Blake, le saghe islandesi – autori e testi citati con passione dal protagonista). Senza forzature, Temple inserisce nel testo portante una moltitudine di corpi dialoganti con la narrazione principale. Estratti di film amati dall’autore di The Great Rock ‘n’ Roll Swindle visualizzano, da altri tempi e spazi, il discorso al centro di The Ecstasy of Wilko Johnson. Così, “il settimo sigillo” di Temple incontra quello originario di Bergman. E, tra le molte presenze filmiche, il melograno che si rompe lasciando fluire il colore rosso in Sayat Nova di Sergei Parajanov oppure le immagini tratte dal film di Powell e Pressburger (in italiano Scala al paradiso), con il pilota salvato e operato, diventano visualizzazioni, e mai mere citazioni, di momenti precisi affrontati da Johnson in quei mesi terminali. Spazi a fianco di spazi. Tempi a fianco di tempi. Temple va anche oltre e, senza necessità di ricorrere al montaggio, utilizza ogni superficie per far convivere strati spazio-temporali. Come nella scena in cui l’edificio alle spalle di Wilko proietta immagini di un concerto con lui giovane. Accade nella stessa inquadratura. In un film/cinema di struggente umanità e profondamente teorico, che gioca e scherza con la Morte (in un inserto un teschio fa l’occhiolino) e guarda, come Wilko appassionato di stelle, verso Saturno, verso un punto d’attrazione lontano da desiderare, o al quale ri-tornare. Film/cinema davvero alieno fino in fondo, quello di Temple.