Animotion – Inside Out 2 di Kelsey Mann e la Pixar che non rischia più

Non deve meravigliare più di tanto il fatto che con Inside Out 2 Pixar e Pete Docter abbiano scelto l’usato garantito per scuotere le sorti della propria storia produttiva, da tempo apparsa sbiadita se non in declino o quantomeno in affanno, anche dal punto di vista commerciale: risultati altalenanti sia dal punto di vista artistico sia al botteghino hanno portato a ripensare le strategie aziendali e a rimescolare le carte per evitare di inciampare in passi falsi, come accaduto con le ultime proposte non esattamente all’altezza delle aspettative. A fronte di questa continua oscillazione, dovuta in parte al cambio di guida (Docter dirige dal 2018) in parte alle contingenze del mercato (e della pandemia), non è una novità che la casa di Emeryville abbia iniziato un significativo ridimensionamento (TechCrunch ha diffuso la notizia che Pixar sarebbe stata sul punto di licenziare circa 300 dipendenti nella seconda metà del 2024, corrispondente al 20% dell’intero staff, composto da circa 1.300 persone), per puntare tutto o quasi sulla produzione di lungometraggi da diffondere prima al cinema e in seguito su Disney+ accantonando così, per il momento, l’intenzione di investire su contenuti seriali originali. Lo stesso Docter ha dichiarato che la serie derivata da Inside Out è pronta per essere distribuita nella primavera 2025 a conferma del fatto che l’unica serie originale che verrà rilasciata nel 2024 sarà Win or Lose, a sfondo sportivo. Non è una novità, ma lascia sempre un po’ sorpresi il fatto che Pixar non rischi più. Ci stiamo abituando, ma forse, romanticamente ci ostiniamo a non accettarlo. E per questo non deve meravigliare pure la scelta di riproporre le vicende rocambolesche delle emozioni di Riley a distanza di nove anni dall’uscita del primo capitolo perché tale scelta risulta in linea con una coerente logica aziendale, giustificata più da esigenze economiche che artistiche. Risultati alla mano, ha avuto ragione Pixar: il successo al botteghino è la riprova che la strategia è stata vincente ma le perplessità non mancano.

 

 
Non solo Inside Out 2 riapre una vicenda interrotta nove anni prima senza rispettare il tempo del racconto (la protagonista Riley ha qualche anno in più rispetto al primo capitolo), ma esplicita fin da subito l’urgenza di riciclare più che ricapitolare e aggiornare il proprio tessuto narrativo e le proprie necessità drammaturgiche. Benché visivamente affascinante, il mondo di Inside Out 2 altro non è che un accumulo di situazioni già viste e vissute altrove, la riproposizione confortante della formula di un successo costruito in laboratorio, che prolunga con una certa insistenza riflessioni già risolte. Niente di male ma, appunto, da Pixar ci si aspetta qualcosa in più. Anche perché, proprio guardando un film così profondamente nostalgico e malinconico, fondato sul riciclo, perché di questo si tratta, ci si domanda che fine abbia fatto la lezione del passato, cosa sia rimasto della Pixar che sorprendeva aprendo immaginari e mondi animati riflettendo sulla memoria e sulle immagini, costruendo sogni, cercando sempre di unire sperimentazione e intrattenimento di qualità. Non manca la qualità, certo ma evidentemente, da tempo, quell’idea di cinema non c’è più ed ora ad Emeryville la priorità è considerare il passato come un contenitore da cui attingere per raccogliere quanto seminato, avanzando, come in questo caso (ma già in Elemental era chiaro), un’idea di cinema rassicurante e massificata. Questa tendenza a conformare il proprio stile e, in un certo senso a limare il gusto dello spettatore, ad appiattire anche le attese, a non chiedere troppo allo sguardo, è la dimensione in cui si infila Inside Out 2 di Kelsey Mann, film interessato a ridefinire il percorso di formazione dell’adolescente Riley soltanto dopo aver sfoggiato un campionario di gag più o meno riuscite con al centro, ovviamente, le sue emozioni.

 

 
Rivedute e aggiornate le emozioni basilari dell’adolescente Riley 1.0 (Gioia, Rabbia, Paura, Tristezza, Disgusto) si ritrovano a fare i conti con le nuove emozioni della Riley 2.0 (Ansia, Imbarazzo, Invidia, Noia, Nostalgia) che andranno a spodestare il trono del controllo del setting emotivo della ragazza, amplificandone la complessità. Su tutte prevale Ansia, protagonista di un vero e proprio golpe per assumere un ruolo centrale nel determinare il cambiamento comportamentale della ragazzina. La morale è identica al primo capitolo: c’è spazio per tutto e per tutti, pure per chi inizialmente era considerato ingombrante e indesiderato, l’importante è trovare il giusto equilibrio e accettare altri punti di vista. È il principio dell’integrazione caro a Pixar, facilitatore di quasi tutte le vicende del proprio immaginario, altrove più approfondito e amalgamato (si rivedano Onward, Luca e Red, giusto per citare tre titoli recenti), qui semplicemente esposto e venduto per essere masticato e consumato. A ben guardare, ciò che più colpisce in questo secondo capitolo sono due aspetti: il primo riguarda le numerose analogie con Toy story 4, film bello e inutile; il secondo l’hockey, sport poco convenzionale al cinema. Come in Toy story 4, uscito nel 2019 per rilanciare un franchise che stava bene dove stava, pure in questo caso ci troviamo di fronte ad un prodotto realizzato per forzare un discorso concluso, qualcosa di non richiesto. Il timore è che di questo passo, ci aspetteranno tanti capitoli quante saranno le fasi evolutive di Riley, visto che il tempo narrativo non corrisponde al tempo atteso dallo spettatore e le licenze retoriche e narrative sono fuori controllo. Come in Toy story 4, ma in maniera meno esplicita e più accomodante, comicità e dramma si intersecano con scioltezza. Se da una parte viene riconosciuto maggiore spazio a emozioni marginali nel primo capitolo come Disgusto, Rabbia e soprattutto Paura (un vero one-man-show esilarante seppure per poche scene), dall’altra ovviamente prevale la componente melodrammatica, in particolare quando Gioia si domanda se crescendo la spensieratezza abbandonerà la vita di Riley.

 

 
Questo è il momento in cui Pixar vuole fare sul serio e comprendiamo che anche in Inside Out 2, il ruolo del reietto, dell’escluso, dell’emarginato può essere interpretato da chiunque, anche da Gioia che inizialmente aveva un ruolo di prim’ordine (un po’ come accadeva a Woody, per intenderci, o ancora meglio da Forky). Avvincente più di ogni altra analogia risulta invece il rapporto stabilito con l’unico elemento di rottura rispetto all’immaginario di riferimento del coming of age, ovvero l’hockey. Già presente nel primo capitolo, in questo secondo assume un ruolo centrale nello sviluppo della vicenda, tanto sul piano sportivo quanto sul piano metaforico. Non sono molti i film che fanno dell’hockey su ghiaccio una metafora di vita (si riveda Miracle di Gavin O’Connor del 2004, con Kurt Russell, produzione Walt Disney) e quindi risulta decisamente interessante rileggere il modo in cui il film utilizza questo sport fatto di tensioni e decisioni repentine, per fotografare l’impatto della ragazza con l’adolescenza: specchio e riflesso di una interiorità vissuta con fatica, paure e desideri, la fase della crescita è un luogo scivoloso, freddo, in cui ci si scontra e si cade ma anche dove ci si rialza con l’aiuto di qualcuno. La morale del gioco di squadra è in corrispondenza con quanto accade alle emozioni di Riley, pertanto ciò che succede dentro Riley è ciò che accade sul terreno di gioco e la lezione appresa da Riley durante gli allenamenti è la stessa guadagnata da Gioia durante il confronto con Ansia. Accettando suo malgrado le conseguenze per condotta antisportiva o per atteggiamenti da individualista, evidentemente messi al bando dalla natura di uno sport che fa del collettivo la sua identità, Riley compie un passo avanti per la propria crescita, così come Gioia. Non possiamo aspettarci una rilettura pedagogica della crisi di identità della ragazza dovuta alle pretese di una società sempre più arrivista e di adulti incapaci di aspettare e accettare i tempi di ciascuno, questo no, tuttavia Pixar entra in gioco proprio in questo momento: al culmine della relazione tra Riley e l’hockey, sceglie di farci sentire il sonoro delle mani di Riley a contatto con la panca di legno e dei suoi pattini quando tornano a danzare sul ghiaccio, permettendosi il lusso di affermare che sport e vita vanno insieme quando ci si sente se stessi. Sono giusto pochi attimi di puro e gratuito lirismo pixariano che riconciliano e riportano il film in un ambiente più suo, meno controllato forse ma più genuino.