Definire Osamu Tezuka come un fumettista per ragazzi sarebbe quantomeno riduttivo. Nonostante la schiacciante maggioranza della sua produzione sia destinata a un pubblico giovanile, pur non essendo affatto priva di profondità, tematiche e spunti di riflessione che la rendono trasversale, il dio dei manga non è nuovo a fumetti destinata a un pubblico più adulto, uno su tutti Gringo, opera incompiuta del tardo Tezuka, un thriller che si portava dietro una forte critica politica e sociale. Ciò nonostante, anche le opere più adulte del padre di Astroboy e di Black Jack conservano una componente seppur ristretta di umorismo, se non sotto forma di momenti inseriti nella sceneggiatura per spezzare la tensione, almeno a livello stilistico: il tratto volutamente cartoonesco di Tezuka si presta all’esagerazione di vignette disegnate apposta per strappare un sorriso di tanto in tanto, concedendo al lettore un break da un lungo momento altamente drammatico. A una certa dose di leggerezza, Osamu Tezuka sembrava non voler quasi mai rinunciare. Quasi. Ed è qui che Mela meccanica (Edizioni BD, J-POP. Osamushi collection, pag. 253, euro 12), il volume che raccoglie i suoi racconti brevi a fumetti prodotti tra il 1968 e il 1983, si distingue dal resto della produzione del dio dei manga. La caratteristica di Mela meccanica è una forte unità di fondo su tutti i livelli: atmosfere, tematiche e caratterizzazione dei personaggi sono riconducibili a un pessimismo di fondo che ricorda vagamente il finale del film Avere vent’anni di Fernando di Leo raccontato con il cinismo pulito e preciso di Giorgio Scerbanenco. La raccolta comprende racconti per lo più brevi il cui finale è di solito un plot twist à la Edgar Allan Poe ma con una coloritura morale meno evidente per quanto non del tutto assente, e una visione del mondo se possibile ancora meno speranzosa, in cui si può al massimo aspirare che i carnefici di turno si facciano del male con le loro stesse mani, quando va bene. Un Osamu Tezuka atipico, che sicuramente si fa sentire durante e dopo la lettura, gettando un’ombra cupa destinata a non svanire tanto presto.