Nel suo David Lynch non perde la testa David Foster Wallace azzarda una definizione scientifica dell’aggettivo “lynchiano” rimasta nel tempo. Secondo l’autore di Infinite Jest, il termine va inteso come l’indicatore di «un particolare tipo di ironia in cui il molto macabro e il molto banale si combinano in maniera tale da rivelare la costante presenza del primo all’interno del secondo» (D.F. Wallace, Tennis, tv trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, minimum fax, Roma 2011, p. 242). In modo simile si esprime l’Oxford English Dictionary, che nell’ottobre del 2018 inserisce il termine nel suo lemmario specificando come Lynch sia noto «per giustapporre elementi surreali o sinistri con ambienti banali e quotidiani, e per utilizzare immagini visive avvincenti allo scopo di enfatizzare una cifra onirica di mistero o minaccia». Uno sguardo d’insieme alla filmografia del regista non solo conferma la lettura ma trova nel ricorso sistematico alla superficie, alla soglia, il correlativo oggettivo di quest’approccio stilistico. Ancor più dei dialoghi, in cui si mescolano quotidiano e orrore, è l’ossessione scopica per le superfici degli oggetti (dai tavoli di formica alle setole spesse delle moquette da interni) e per l’aprirsi improvviso di vani, punti di passaggio, fratture morbide o refrattarie (dai fili d’erba in contatto col terreno al buio assoluto in fondo a un corridoio, magari oltre un pesante tendaggio rosso) a generare questa specifica forma d’ironia, un’instabilità che confonde e allarma perché – sempre secondo Wallace – non chiarisce allo spettatore le coordinate emotive del luogo in cui quelle immagini lo stanno portando.
Ci sarà da ridere, da piangere, o magari terrorizzarsi? Possono delle pale di un ventilatore a soffitto generare un così profondo senso dell’orrore? Dov’è Bob e perché questo puzzo d’olio di motori bruciato, la Loggia nera sta aprendo le sue porte? Di soglie e soprattutto superfici è colma una serie come The Curse, non a caso definita lynchiana da molti dei suoi commentatori. La specificità dello show muove però oltre la semplice adesione qualitativa, a contare sono il modo e le intenzioni con cui viene perseguitata quest’identità. Ovvero con una lucidità e perspicacia tali da rendere la serie una delle visioni migliori della stagione 23-24. Prodotta da Showtime in collaborazione con A24, The Curse è ideata e scritta da Nathan Fielder e Benny Safdie, con Fielder regista di gran parte degli episodi oltre che co-protagonista accanto a Emma Stone. I due interpretano una giovane coppia di sposi intenta a realizzare e farsi confermare il pilot del loro show televisivo, un reality immobiliare dedicato al risanamento di una comunità difficile – Española in New Mexico – attraverso la creazione e vendita di case ad alta tecnologia prive di impatto ambientale. Una delle linee, narrative e tematiche, offerte dallo show si concentra nello specifico sulla relazione sentimentale dei due, dissezionata come un qualcosa di freddo, disarticolato e manualmente ricomposto, un quadro di miseria umana sorretto da egocentrismo ideologico e mascolinità in crisi. Fielder e Safdie ricorrono in particolare alla figura dello schlemihl, l’inetto della tradizione culturale ebraica, incarnato infinite volte da Woody Allen e qui ripreso per il personaggio del marito, Asher, dotato di micro-pene e afflitto da una costellazione di meschinità e bassezze mondata in parte da un perenne senso di colpa e un ancor più invadente sentimento di inadeguatezza.
Ugualmente sgradevole è la consorte Whitney, vittima apparente mossa da ipocrisia e schiacciante ambizione, figlia di genitori speculatori edilizi fintamente rinnegati quando di fatto partner commerciali nel piano speculativo che sottende tutta l’operazione televisiva. Due mostri insomma, la cui vita di coppia si mostra come un diorama plastificato con sentimenti ready-made ed emotività stoccata in serie. Ma cosa rende il loro ritratto lynchiano? Una prima risposta riguarda certamente l’impianto formale che sorregge lo show, un sorprendente accumulo eerie di distorti riflessi specchiati, luci diffuse che rendono indistinguibile (perché ugualmente artificiale) l’interno dall’esterno, un incombere sonoro di musica e contesto ambientale volto a incrementare la tensione orrorifica e alienante insita negli elementi presenti in scena. L’esperienza spettatoriale che ne deriva richiama alla mente un’altra celebre definizione, quella che Mark Fisher dava dell’eerie, categoria che si distingue dal weird nel suo essere «un fallimento di assenza o un fallimento di presenza» ovvero una situazione in cui troviamo qualcosa dove non dovrebbe esserci niente o non troviamo nulla dove dovrebbe esserci qualcosa (M. Fisher, The weird and the eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, minimum fax, Roma 2018, p. 72). In entrambi i casi sfugge il motivo di questa discrasia, la ragione per cui gli elementi circostanti sono stati ricombinati: per come è inteso da Fisher, l’eerie è anzitutto una crisi gnoseologica per cui il soggetto non è a conoscenza di chi sia in opera nel porre e nel sottrarre, nell’operare scelte e azioni che modificano lui e l’ambiente tutt’attorno. È questo meccanismo di assenza-presenza, per cui l’orrore appare e convive con il banale mentre sembra scomparire ogni traccia di umanità residua, il tratto profondamente lynchiano che The Curse fa proprio, nel venir meno dell’umano in corrispondenza di una sovrabbondanza di autorappresentazione da parte del feticcio. Contribuiscono all’effetto tutti gli elementi formali descritti sopra, esasperati da frequenti carrellate ottiche che schiacciano sul fondo i personaggi annullando ogni profondità interna all’immagine.
L’effetto è smaccatamente eerie perché lo zoom, strumento televisivo per eccellenza («il nemico numero uno del cinema», diceva Godard), viene impiegato solamente quando la serie ha da mostrare immagini di natura oggettiva, parti dello svolgersi naturale del racconto. Al formato 16:9 del narrato si alterna infatti il linguaggio letteralmente televisivo generato dal programma di Asher e Whitney, un girato realizzato con un formato HD di vecchia generazione la cui patina real-time rincorre un effetto di realtà costantemente fallimentare. Ne risulta un corto circuito paradossale tra immagine cinematografica e televisiva, realtà oggettiva e presunta, in cui lo statuto dell’immagine tende per ciascuna delle due parti verso il suo polo opposto, fallendo in entrambi i casi. In The Curse la realtà fallisce il suo compito di rappresentazione del vero precipitando nell’artificiosità dei codici televisivi, mentre la reality-tv vede sgretolarsi la sua pretesa di realismo sotto l’erosione mediale di un’attrazione mercificante che tutto plastifica. Il diavolo, dice l’esorcista Amorth, ha trovato la sua più grande vittoria nel far credere al mondo che non esista. Ugualmente potremmo dire oggi, in era di piattaforme, streaming e cultura on demand, della vecchia, cara televisione, trattata in sede critica come un vecchio residuo visuale ormai sostituito da meme digitali e GIF e reels e wall in scorrimento tra i vari social media. Per anni cinema e altri apparati culturali hanno riflettuto sull’impatto mediale della televisione nei rapporti soggetto-immagine (Sesso, bugie e videotape) e immagine-mondo (Videodrome) ma oggi l’attenzione speculativa è evidentemente rivolta alla moltiplicazione, frammentazione e personalizzazione degli schermi digitali, con proliferazione iconica annessa.
Tuttavia, anche in questo nuovo scenario over-the-top, la televisione continua a esistere e macinare ore di visione, a masticare e fondere frammenti risputando simulacri. The Curse è il regno della televisione come credevamo di averlo visto morire, e che invece è soltanto un passo più lontano dalla luce del sole rispetto a Netflix. Ancora determinante, mutante. In questo senso la serie di Fielder e Safdie è profondamente (e intelligentemente) lynchiana, perché genera un costante movimento verso e in allontanamento dalle soglie, una tensione duplice e speculare tra realtà e simulacro per cui è impossibile per i personaggi comprendere e ritrovare più la distinzione tra i due piani di realtà, la fattuale e quella simulata. Le due dimensioni si embricano nel linguaggio televisivo che diventa schermo accudente all’interno del quale riscrivere anzitutto la percezione di sé. Feroce parodia dell’intento liberal woke che peggio nasconde il finto progressismo e il suo forzato buonismo, Asher e Whitney (cui si aggiunge Safdie stesso, nei panni di un regista di tv trash ormai perso oltre i confini dello sguardo) non sono più in grado di leggere la realtà o loro stessi, non possono interpretare le immagini perché lo sono diventati in prima persona, e in quella riscrittura accudiscono le loro artefatte idee di sé, identità utili a nascondere il marcio sotto il tappeto vivendosi paladini di morale e commiserante, pietosa, buona volontà. Fossimo veramente in un film di Lynch saremmo allora in Mulholland Drive, ma intrappolati nella sua prima parte, nell’illusorio sogno di compensazione, cosicché ogni stortura e inquinamento morale, dalla gentrificazione alla prevaricazione di classe, dal razzismo all’avidità più gretta, possa pullulare nascosta sotto la superficie, appena oltre la soglia o dietro l’angolo di un diner, e l’orizzonte del visibile si moltiplichi ed estenda in un luminoso, distorto, riflesso specchiato, quel che fu carne e diventa simulacro percettivo a là Francis Bacon. In un mondo del genere anche lo scherzo virale tentato da una bambina diventa il segno di una maledizione. Se la lettura dell’immagine viene meno, il senso del mondo va a seguire.