Ripensarsi: Solo per una notte, l’esordio di Maxime Rappaz

Claudine, madre e amante; l’ordine e il controllo come schermi e schemi per tutelare l’esistenza di fronte all’imprevedibilità dei sentimenti, allo smarrimento della ragione, all’abbandono, alla solitudine. È ferma da troppo tempo, anche se sempre in movimento; ha un vissuto profondo come tale è anche la crisi che sta attraversando e che la condurrà a ripensarsi come donna e innamorata, a ricalibrare le priorità e dare nuovo senso alla realtà. Siamo nel Canton Vallese della Svizzera, nell’estate del 1997. Ogni martedì, Claudine, la protagonista di Solo per una notte, lascia il suo unico figlio disabile Baptiste, che ha un debole per Lady Diana e il cantante Johnny Logan, in custodia ad una vicina di casa e si reca in un hotel di montagna per incontrare uomini sconosciuti e concedersi un’evasione dal mondo di privazione che continua ad abitare. Veste i tacchi e l’abito elegante, prende la funivia e sale su, fino a 2500 metri, alle pendici della diga della Grande Dixence, situata in testa alla Val d’Hérens. Le regole sono poche, semplici e precise: solo uomini che si fermano per una sola notte e che non incontrerà mai più. Gli incontri dentro e fuori la camera non sembrano così appaganti, né dal punto di vista sessuale né dal punto di vista sentimentale, ma dalle fugaci conversazioni Claudine carpisce informazioni descrittive sulla provenienza del temporaneo amante e sufficienti per alimentare una narrativa che spenderà con il figlio, giustificando così l’assenza del padre impegnato in viaggi, altrove. Le lettere che andrà a scrivere e indirizzate a Baptiste, ricche dei dettagli rubati durante gli incontri ad alta quota, andranno a costruire un universo fittizio che almeno parzialmente colmerà un vuoto misterioso e ingombrante e, anche se in modo fantasmatico, restituiranno l’idea o l’apparenza di un quadretto famigliare “completo” e tradizionale. Tuttavia, l’ennesimo schema verrà ridimensionato e scomposto una volta che impatterà con la realtà.

 

 
Evidentemente nasce da questo innesco drammaturgico il motivo che ha spinto a tradurre il titolo originale Laissex moi (Let me go) in Solo per una notte, lungometraggio d’esordio, raffinato e asciutto, di Maxime Rappaz. Un tradimento di senso che conserva un’ambigua duplicità ma che non restituisce l’intera gamma di significati che, invece, l’originale possiede. Infatti, se da una parte notte riflette la cifra di una fuga (di Claudine) che dal basso si sposta in alto, al contempo, dall’altra rivela una distanza, o meglio un’attesa (di Baptiste) che separa da un racconto all’altro, dalla convinzione di credersi famiglia compiuta, dall’idea di una presenza viva. Tra un essere e un voler essere. Ma accanto a questo Rappaz costruisce una fitta trama di segni distinguibili e immagini potenti che avvolgono di desiderio il mondo di Claudine, che lo riempiono di significato ritraendola in quel momento cruciale della vita in cui il tempo che si ha ancora da vivere è più breve rispetto al tempo già trascorso, in cui si prende in considerazione il dubbio e si guarda in faccio il cambiamento. E proprio su un ponte, di fatto all’inizio del film, la vediamo camminare intrigante e pronta ad un nuovo incontro, ripresa in campo totale, così immensamente piccola rispetto al paesaggio che la avvolge e protegge. È un film che deve essere guardato così, alla ricerca di questa corrispondenza tra dentro e fuori, tra terra e cielo, tra basso e alto, perché interessato ad esplorare il dramma della libertà, tutto espresso dalla ricorrente presenza della diga che argina e separa ma anche contiene e espone infinite lacrime, laceranti domande. Torna allo sguardo tanto il Sister (L’enfant d’en haut) di Ursula Meier (per ambientazioni e questioni poste al centro della vicenda) ma anche Undine di Petzold, per come restituisce l’idea di un cinema europeo esigente e legato alle sue tradizioni, ancora in grado di stupire domandandosi cosa sia rimasto dell’essere umano.

 

 
Solo per una notte condensa le tensioni per raccontare «la storia di emancipazione di una madre devota, di un’amante esigente, di una donna ispirata dall’amore che vive in un mondo gelido che si scioglie al calore di un sentimento d’amore, disposta a mettere in discussione la totalità della sua esistenza», come dichiarato dallo stesso Rappaz. Così la ritualità del viaggio con cui si apre il film, avverte lo spettatore della possibilità di una transizione che sarà sorprendente, spaventosa e vertiginosa. Non a caso il film si apre con un lungo carrello sul treno, i passaggi nell’oscurità dei tunnel, la diga imponente e la densità di una montagna scarsamente popolata. Non a caso in una delle sequenze più ricche di sentimento, Claudine e l’ingegnere idrico Michael (Thomas Sarbacher) si ritroveranno a osservare con i propri occhi il mistero dell’acqua contenuta nella diga. Un istante, frammento di uno scenario realizzato nel rispetto di una simbolica drammatica e fiabesca in cui convergono differenti registri volti ad amplificare la complessità del personaggio di Claudine, interpretato da un’intensa Jeanne Balibar: la vita quotidiana, i ritmi della sartoria, la cura del figlio, il tempo delle fughe in montagna, la trasgressione, l’eleganza, il mistero ma anche la malinconia e la sofferenza. Contraddizioni emotive e rigore formale che stanno in equilibrio anche grazie alla presenza di Benoit Dervaux, già direttore della fotografia con i Dardenne: tono morbido e pittorico, inquadrature ampie, statiche o in movimenti strutturati che riflettono la luce interiore di Claudine. Debolezze, mutamenti e schemi fissi, riti di passaggio, la fragilità umana, il pericolo del credere alle storie. Una donna in cammino, in ricerca, fuori da copioni omologanti. Quale immagina ritagliare e mostrare di sé, quale tenere in vita, quale nascondere? Film di cortocircuiti, fantasmi, sogni, con un finale sorprendente e devastante.