Hackney Diamonds. Ventiquattresimo disco (in studio) dei Rolling Stones. Com’è, come non è. Ci arriviamo. Dopo aver passato in rassegna tutti gli altri ventitrè.
THE ROLLING STONES (1964) Primo album dei ragazzi, allora poco più che ventenni, è un omaggio al blues e al R&B. Dodici tracce, tutte cover tranne tre: Tell Me (You’re Coming Back) è la prima firmata Jagger-Richards, mentre due, Little by Little e Now I’ve Got a Witness (Like Uncle Phil and Uncle Gene), sono firmate o cofirmate Nanker Phelge, pseudonimo della band in fase di scrittura collettiva. Not Fade Away è il singolo, non presente nella versione UK del disco (una consuetudine negli anni 60). Perla nascosta: I’m a King Bee di James Moore con la slide di Brian Jones. Voto: 7
THE ROLLING STONES no. 2 (1965) Lo schema è lo stesso del primo disco: cover e qualche pezzo originale, tre firmati da Jagger – Richards, nessuno dei quali francamente memorabile e infatti spariti presto dalle setlist. Ma c’è Time Is On My Side di Norman Meade che vale tutto il disco, benché la versione migliore resti quella live di Still Life (1982, voto 8). Perla nascosta: Down Home Girl del presleyano Jerry Leiber. Voto: 7
OUT OF OUR HEADS (1965) Con il singolo che precede l’uscita del disco, (I Can’t Get No) Satisfaction, nascono gli Stones, quelli veri, la più grande rock’n’roll band di tutti i tempi. Out of Our Heads è il disco cerniera, un prima, le cover blues, soul e R&B, e un dopo, il rock come lo sanno fare solo loro. The Last Time è il secondo classico dell’album. Perla nascosta: Play With Fire, scritta da tutto il combo. Voto: 7
AFTERMATH (1966) Il salto di qualità definitivo. Succede qualcosa, Nanker Phelge gira, ovvero suona, alla grandissima. Brian Jones è sugli scudi in fase creativa, sono suoi gli arrangiamenti di Lady Jane, Paint It Black e Under My Thumb, come testimoniato da Bill Wyman, anche se poi, in studio, la maggior parte delle chitarre le suona Keith. Al di là della paternità, con Aftermath nasce un suono che è la somma delle parti. Perla nascosta: Out of Time, mai suonata live fino al 2022, dopo l’utilizzo di Tarantino che la fa sentire tutta in Once Upon a Time in Hollywood (d’altro canto il senso del film è tutto nel testo di Jagger). Voto: 10
BETWEEN THE BUTTONS (1967) Ultimo disco prodotto da Andrew Loog Oldham. Jones si scatena suonando sei strumenti diversi oltre alla chitarra, tra i quali dulcimer, hammond e tromba. I singoli apripista sono Let’s Spend the Night Together e Ruby Tuesday, detto tutto. Può sembrare un disco disomogeneo, con anche qualche anticipo di psichedelia pop, ma è invece la prima “antologia” della complessità Stones, manca giusto il country ma arriverà. Something Happened to Me Yesterday è il primo brano cantato da Keith con Mick in retroguardia. Perla nascosta: Connection a doppia voce, in seguito nelle setlist del solo Keith con i Winos. Voto: 9
THEIR SATANIC MAJESTIES REQUEST (1967) Con i ragazzi tutti più o meno strafatti, e senza un produttore, le session del disco, secondo la testimonianza di Wyman che qua cerca di tenere insieme la baracca, sono un bordello letterale. Il risultato è un patchwork psichedelico bistrattato dalla critica e poco amato dai fan, nonostante almeno un classico, She’s a Rainbow. Wyman scrive e canta In Another Land, unico caso. Perla nascosta: 2000 Lights Year from Home. La prima volta che ho visto gli Stones dal vivo, Stadio Flaminio 26 luglio 1990, l’hanno suonata prima di Sympathy for the Devil e non so dire quale fosse migliore. Voto: 7
BEGGARS BANQUET (1968) Gli Stones incontrano Jimmy Miller, il producer di Steve Winwood, che glielo dice chiaro: la ricreazione è finita. È il primo album totalmente richardsiano nell’ispirazione e nel suono (sue quasi tutte le chitarre, Brian è sempre più assente) con brani di ricerca in ambito roots rock e blues. La voce di Mick si adegua, canta come un cockney cresciuto a New Orleans nella casa del sole nascente. Sympathy for the Devil viene filmata nel suo farsi da Godard, Street Fighting Man resterà la sola sortita politica del combo (è il 68, bellezze) ma tutto il disco pare la sintesi della perfezione ruvida che ritroveremo in Exile. Perla nascosta: Salt of the Heart, testo kenloachiano di Jagger ma prima strofa cantata da Keith. Voto: 10
LET IT BLEED (1969) Brian è ormai un ectoplasma, Keith scrive Gimme Shelter e l’umanità ancora ringrazia, poi il riff sporco di Midnight Rambler, il corno inglese di You Can’t Always Get What You Want e la versione scarna di Love in Vain di Robert Johnson contribuiscono a rendere il disco leggendario. Miller insiste per valorizzare la parte country ma Country Honk, riarrangiamento di Honky Tonk Women, singolo che precedette l’album, non vale la versione più celebre. La title track countreggiante invece è fantastica. Ry Cooder tra i guest e in un paio di brani esordisce Mick Taylor. Perla nascosta: You Got the Silver, esangue love song da Keith dedicata alla sua fidanzata Anita Pallenberg. Voto: 9
STICKY FINGERS (1971) L’ingresso negli anni 70 è brutale. Brown Sugar, scritta da Mick ma con uno dei riff più celebri di Keith, parla di uno schiavo nero amante notturno di vogliosa padrona bianca e viceversa del sapore di una fanciulla nera, difatti dal vivo non la possono più cantare (ma il testo era già stato ammorbidito negli anni). Resta un loro inno, e il titolo allude anche all’eroina. Keith risponde con uno dei suoi brani più belli, Wild Horses, e il nuovo chitarrista Mick Taylor dimostra di che pasta sia fatto nella parte strumentale di Can’t You Hear Me Knocking, a tutti gli effetti “sua”. Dead Flowers doveva essere cantata da Keith ma è magnifica anche con Mick. Perla nascosta: I’ve Got the Blues, l’assolo di hammond di Billy Preston vale il prezzo del biglietto. Voto: 10
EXILE ON MAIN ST. (1972) Con Mick innamorato perso di Bianca Jagger, e Keith di Sister Heroin, comincia in trasferta la lavorazione del più grande disco rock’n’roll di tutti i tempi. Diviso in due tempi. L’incisione grezza dei pezzi avviene a Villefranche-Sur-Mer nella Villa Nellcôte, Mick è spesso assente, fanno tutto Keith con Gram Parsons, Bobby Keys, Jimmy Miller e una compagnia di giro (compresi saltuariamente John Lennon e William S. Borroughs) a un certo punto “attenzionata” dalla polizia. Bill Wyman ricorderà che le session si svolgevano di notte, spesso nello scantinato, ma intanto nascevano pezzi eterni. In una seconda fase, Jagger porta tutto il materiale richardsiano, quindi Tumbling Dice, Happy, Rip This Joint, Rocks Off, Torn and Frayed e Ventilator Blues (firmata con Mick Taylor), a Los Angles per gli overdubs e gli arrangiamenti finali. Gli Stones fecero l’impresa. Perla nascosta: di nascosto non c’è nulla perché ogni cosa risplende, ma adoro su tutte Loving Cup. Voto: 10
GOATS HEAD SOUP (1973) Dopo un disco epocale e un tour mastodontico in Usa, gli Stones sono un po’ stanchini e riciclano vecchio materiale, registrando solo pochi nuovi pezzi sotto l’egida di Miller alla sua ultima prova con la band. Wyman è quasi assente, sta lavorando a un disco suo, Monkey Grip (1974, voto 7), il primo di uno Stones senza gli altri, in compenso i tamburi di Charlie suonano ovunque. Angie è il singolo, un pezzo di Keith dedicato alla figlia e non di Mick sulla moglie di Bowie. Il risultato, benché disomogeneo, suona comunque bene e anzi il disco è stato rivalutato nel tempo. Perla nascosta: Coming Down Again cantata da Keith con il controcanto di Mick, tra i miei brani preferiti. Voto: 8
IT’S ONLY ROCK’N’ROLL (1974) La title track viene incisa da Mick con il bassista Willie Weeks e i membri dei Faces Kenney Jones (batteria) e Ronnie Wood (chitarra) a casa di quest’ultimo. Jagger la vorrebbe regalare a David Bowie ma Keith la sente e gli dice «sei pazzo?», poi aggiunge in post qualche schitarrata delle sue. Dà il titolo a un album definito una “comfort zone”, gira tutto bene ma senza troppe sorprese, anche se Time Waits For No One e If You Really Want to Be My Friend sono brani eccellenti. Per entrambi, Mick Taylor ha rivendicato la coautorialità, negata. In ogni caso decide subito dopo le ultime session di lasciare gli Stones. Perla nascosta: Dance Little Sister, gran bel pezzo impreziosito dal battere sordo di Charlie, con grandi ritmiche grezze di Keith. Voto: 8
BLACK AND BLUE (1976) Ronnie Wood entra negli Stones portando in dote lo scheletro di un brano originale, Hey Negrita, da cui il nome della band italiana. Il disco è variegato, divertente, molto elaborato da Billy Preston vero autore di Melody, ma Jagger piazza una canzone clamorosa, Fool to Cry, che resta nel golden book della band. Si consolida l’interesse per generi diversi come il funk e il reggae. Perla nascosta Memory Motel, di cui esiste anche una bella versione suonata con Dave Matthews. Voto: 8
SOME GIRLS (1978) Per uscire dalla comfort zone degli ultimi tre dischi, gli Stones tornano a concentrarsi sul loro suono. Nonostante i problemi di Keith, che si sta disintossicando e ha strascichi legali in due continenti, Jagger gira a mille e scrive la grandiosa Miss You, When the Whip Comes Down e Lies. Con pochissimi interventi esterni, Some Girls è un disco dei Rolling Stones al 100%: si fanno i conti col passato ma anche col presente, il punk e il funk, dimostrando che lo scettro dei migliori è ancora ben saldo nelle loro mani. Bill e Charlie sono il muro del suono davanti al quale lavorano le chitarre (tre, anche Mick, e con Ronnie a pieno regime). Perla nascosta: Before They Make Me Run di Keith, decisamente autobiografica. Voto: 9
EMOTIONAL RESCUE (1980) Un po’ come Black and Blue, è un disco divertente, squilibrato, discontinuo, meno compatto di Some Girls ma con brani ispirati come la title track cantata da Mick in falsetto e Dance Pt.1 (da un’idea di Ronnie) che quasi prosegue il ritmo di Miss You (con un testo meno cupo). Bellissima Indian Girl, omaggio sexy al terzomondismo rivoluzionario. Ci sono un paio di filler ma il disco gira bene. Perla nascosta: Down in the Hole è nel mio pantheon (inteso come tempio del divino) da sempre. Voto: 8
TATTOO YOU (1981) Ho scoperto gli Stones grazie a questo disco, che resta il mio preferito in assoluto insieme a Darkness On the Edge Of Town di Springsteen. Al di là delle vibes personali, è comunque un miracolo inconfutabile. Tutto l’album è di soli “scarti” dei lavori precedenti, recuperati e sistemati, a volte stravolgendoli come nel caso di Start Me Up nata reggae, sotto la guida del produttore Chris Kimsey, che ebbe l’idea. Neanche un filler, solo brani superbi, con Wood in formissima (Black Limousine è sua) e tutti gli altri comunque in palla. Perla nascosta: Heaven, ma direi tutto il lato B del disco se lo avete in vinile.
Voto: 10
UNDERCOVER (1983) Le tensioni tra Mick e Keith si fanno evidenti e nascono per motivi artistici. Il primo, tra worldbeat e batterie elettroniche, vuole sperimentare, il secondo tenere il punto del rock-blues di marca Stones. Il risultato è un ibrido che forse non soddisfa nessuno, privo com’è di brani speciali. I singoli sono la jaggeriana Undecover of the Night, cupo noir sudamericano, e la richardsiana She Was Hot, divertente ma standard. Scarso successo e nessun tour, a dire del clima. Perla nascosta: Tie You Up (The Pain of Love) grezza e roca, ad anticipare lo stile che sarà di Dirty Work. Voto: 6
DIRTY WORK (1986) Mick esordisce da solista con She’s the Boss (1985, voto: 6), «un disco che hanno in tanti ma non ascolta nessuno» dice Keith che non la prende bene. I Glimmer Twins sono separati in casa, per cercare comunque di portare in studio qualcosa di nuovo si chiama un produttore importante, Steve Lillywhite, che aveva firmato i primi tre album degli U2. Trainato dal singolo-cover Harlem Shuffle, Dirty Work è un lavoro più che sporco duro, con sonorità ruvide, la voce di Mick aggressiva, Bill e Charlie a pestare più ed oltre. Paradossalmente le sole gentilezze della scaletta sono i brani di Keith Too Rude (a dispetto del titolo) e Sleep Tonight. Ottima la title track, cattivissima, ma il disco delude tutti i fan tranne uno: io. Perla nascosta: Winning Ugly, nel mio pantheon, cori di miss Patti Scialfa, a chiudere un cerchio tutto mio. Voto: 8
STEEL WHEELS (1989) Anche Keith esordisce da solo con Talk is Cheap (1988, voto: 7) e fonda con Steve Jordan (che adesso sostituisce Charlie) una nuova band, gli X-pensive Winos. Una tregua con Mick, reduce dall’insuccesso del secondo disco Primitive Cool (1987, voto: 6), fa tornare tutti insieme in studio per un nuovo disco. Il risultato è Steel Wheels, composito e diseguale con qualche filler ma anche cose super interessanti, a partire dalla rocciosa Rock and a Hard Place che suonerà spesso nei due tour successivi, lo Steel Wheels e l’Urban Jungle tour. Il singolo Mixed Emotions e Almost Hear You Sigh sono brani scritti da Keith (il secondo con Jordan) per i Winos che Mick ha intercettato, straniante e bellissima è Terryfing con la tromba di Roddy Lorimer. Perla nascosta: Break the Spell, formidabile giro di basso suonato da Ronnie Wood (che da giovane questo faceva, il bassista).
Voto: 7
VOODOO LOUNGE (1994) Dopo l’adieu di Bill Wyman gli Stones restano in quattro. Gran bel disco richardsiano (Voodoo era il nome del suo gatto) che segue l’ottimo lavoro solista di Jagger Wandering Spirit prodotto da Rick Rubin (1993, voto: 8) e l’altrettanto ottimo di Keith Main Offender (1992, voto: 8). Il singolo Love is Strong viene in origine registrato da Keith con Ronnie Wood e Ivan Neville, il produttore Don Was la reincide cantata da Mick e con i tamburi di Charlie. Anche You Got Me Rocking va incontro a una transizione, esiste un demo bootleg registrato dai soli Mick e Keith e un piano credo suonato dal primo in una versione blues, trasformato poi in un rock’n’roll in puro Stones style. Intro di Charlie geniale in Moon Is Up di cui fa l’esegesi Ralph Fiennes in A Bigger Splash di Luca Guadagnino. Perla nascosta: Sweethearts Together, tequila, sesso e tramonto altrove. Voto: 8
BRIDGES TO BABYLON (1997) Una volta che i Glimmer Twins fanno tutto insieme, condividendo gli studi di registrazione, esce un album discutibile. Non mancano i pezzi memorabili – Out of Control e Saint of Me – ma troppi altri sono filler piuttosto trascurabili, a parte forse il tiro inziale di Flip the Switch. Iperprodotto, trainato da Anybody Seen My Baby? che boh, è insieme a Undercover il peggior disco della band. Perla nascosta: Thief in the Night di Keith. Voto: 6
A BIGGER BANG (2005) Dopo l’eccletismo di Bridges to Babylon, A Bigger Bang suona quasi conservatore ma meglio così. Ben 16 brani, un ventaglio di Stones style tenendo dritta la barra del rock blues. Non tutti i brani sono memorabili, alcuni brutti (Sweet Neo Con, Streets of Love che pure ha successo ma è un clone di Out of Tears), alcuni trascurabili (Look What the Cat Dragged In, Dangerous Beauty) altri belli o bellissimi (Infamy, Biggest Mistake, Oh No, Not You Again che sembra autoironica, Rain Fall Down, Rough Justice primo singolo). Perla nascosta: Laugh, I Nearly Died, nel mio pantheon. Fosse stato di 10 pezzi gli avrei dato 8. Così, voto: 7
BLUE & LONESOME (2016) Ritorno ai vecchi tempi degli esordi con un disco di sole cover blues, tutto suonato in diretta negli studi londinesi di Mark Knopfler, esecuzioni perfette con Mick sugli scudi anche per l’armonica (ben due i brani di Little Walter, l’Hendrix dello strumento). Forse un po’ troppo perfette a dire la verità, delle origini mancano ruvidezza e spontaneità. Perle nascoste non ce n’è, essendo tutti brani di rilievo, ma i pezzi migliori sono I Can’t Quit You Baby di Willie Dixon e All of Your Love di Magic Sam che forse è anche la meno nota della lista. Voto: 7
HACKNEY DIAMONDS (2023) A diciotto anni di distanza dall’ultimo disco di inediti, un ritorno che tiene conto di tutto quel che è accaduto, a partire dalla scomparsa di Charlie Watts che comunque suona in due brani incisi nel 2019. Il giovane produttore, Andrew Watt, con la giusta reverenza, ha fatto l’esegesi dell’album in una lunga intervista a Rolling Stone, rivelando le fasi della lavorazione. A qualcuno è venuto il dubbio che la voce di Mick fosse un po’ trattata, specie nei due singoli Angry e Miss It Up, ma la prova live dello show case di New York dello scorso ottobre ha spazzato via ogni dubbio: a cantare è sempre Jagger il re della foresta. Che questo sia soprattutto un disco suo, iperattivo negli anni del Covid, lo ha ammesso anche Keith in una intervista, benché il primo brano a essere registrato per l’album, a parte i due con Charlie (Mess It Up e Live by the Sword, l’unica prodotta da Don Was), sia stato Tell Me Straight cantato da lui. Il disco suona bene, non ci sono pezzi particolarmente memorabili anche se Sweet Sound of Heaven, grazie soprattutto all’apporto (qui a bottega decisamente inatteso) di Lady Gaga, ha un tiro notevole. Perla nascosta: Dreamy Skies, il country, molto bella. Voto: 7