Nell’estate del 2021, a Tokyo, gli italiani scoprirono di essere un popolo di saltatori, velocisti e marciatori. Tre anni dopo, all’indomani della clamorosa grattata – sì insomma, dei problemi con la marcia – il Belpaese spera di rimediare con un il getto del peso, definizione peraltro superata dall’affermarsi della tecnica rotatoria. Le (per me concrete) speranze azzurre si concentrano su Leonardo Fabbri, fresco campione continentale e primatista italiano grazie al 22.95 che ha migliorato di 4 centesimi il record stabilito nel 1987 da Alessandro Andrei, già olimpionico a Los Angeles, anch’egli fiorentino e dichiarato idolo del nostro. Il quale, nelle qualificazioni di venerdì, giorno in cui lo Stade de France ha aperto i battenti all’atletica, ha dapprima stentato, esordendo con una misura per lui modesta seguita da un nullo, poi, al terzo ed ultimo tentativo ha fatto meglio di tutti, toccando i 21.76. “Chiedo scusa per avervi fatto soffrire – ha commentato -: durante il riscaldamento sbadigliavo, mi sentivo un leone senza appetito”. Nella finale di sabato vedremo in gara anche Zane Weir, il sudafricano naturalizzato italiano che a Tokyo fu ottimo quinto e intanto ha conquistato la sua seconda finale olimpica (Fabbri invece è all’esordio, avendola mancata di dieci centimetri nella capitale del Sol Levante) grazie a un lancio di 21 metri tondi tondi. Registrato il primo oro assegnato nell’impianto di Saint-Denis, quello dell’ugandese Cheptgei nei 10.000 a ritmo di record olimpico (26’43’’14), occupiamoci di un altro stadio, il più glorioso di Parigi, il Parco dei Principi.
La giornata di venerdì sulla carta non sembrava particolarmente favorevole all’Italia, che in effetti ha conquistato “soltanto” (le virgolette sono d’obbligo) una medaglia d’argento nel canottaggio di cui ci occuperemo tra poco, raccogliendo così il bottino ad oggi meno ricco di questi Giochi; alla luce di questa previsione, ho proseguito il pellegrinaggio tra gli impianti, prima tappa Boulogne-Bilancourt, già terreno di caccia dei reali di Francia, ed ecco spiegato il nome, a lungo anche velodromo e attualmente casa del Paris Saint-Germain. E che sia un impianto che ospita la Champions League e non una struttura provvisoria, lo si capisce non appena entrati nella sala stampa, ampia, accogliente, ordinata, con l’aria condizionata alla giusta temperatura. Di più. Nello spazio dedicato a rifocillare (nel mio caso a sfamare) i giornalisti, compaiono addirittura le albicocche, al fianco delle solite banane (si badi bene non tigrate) e delle preziose barrette energetiche. Ho scritto prima di pellegrinaggio, termine più che mai adatto a descrivere il mio stato d’animo nello stadio che nel ‘98 ospitò la finale di Coppa UEFA, vinta dall’Inter sulla Lazio con un indimenticabile 3-0, suggellato da uno dei gol più iconici di Ronaldo, che stordì Marchegiani con una serie rapidissima di finte, per poi saltarlo in bellezza e depositare in rete. Per l’angolo del cuore e a beneficio dei soli lettori di fede nerazzurra, aggiungo che la partita era stata subito sbloccata da Zamorano e messa al sicuro da Zanetti. In realtà l’attuale impianto è un po’ diverso da quello che fece da cornice alla terza Coppa Uefa alzata dall’Inter, essendo stato ritoccato nel decennio scorso, ultimo intervento in una storia iniziata nel 1897 con una prima struttura che venne poi abbattuta e ricostruita nel 1932, quando ospitò l’ultima tappa del Tour de France, come poi avvenne fino al 1967. Un nuovo, massiccio intervento, che portò al sacrificio del velodromo, venne effettuato nel 1972, allorché il Parco dei Principi divenne la sede degli incontri della nazionale – sono stato tentato di scrivere Wembley francese, ma non posso rischiare di vedermi ritirare l’accredito olimpico – status mantenuto fino al ‘97, anno dell’inaugurazione dello Stade de France.
Venerdì si giocava Marocco-Stati Uniti, terminata con un franco 4-0 per i magrebini, che ovviamente erano supportati dalla quasi totalità dei cinquantamila spettatori che affollavano l’impianto, mentre altre migliaia stazionavano all’esterno. È evidente che il calcio alle Olimpiadi ha un ruolo e un peso specifico ben diverso da quello che ricopre solitamente nel panorama sportivo, ma il seguito di tifosi resta imponente. Si giocavano i quarti di finale, che hanno promosso, oltre alla squadra di capitan Hakimi (…) la Spagna, l’Egitto e la Francia, che ha eliminato in serata l’Argentina al termine di un incontro molto temuto sotto il profilo dell’ordine pubblico, dopo che lo sventurato Enzo Fernandez aveva messo in rete un filmato in cui una parte dei calciatori sudamericani festeggiava la vittoria nella Copa América con un coretto idiota che dileggiava i giocatori di colore della nazionale transalpina. E in effetti se sugli spalti la situazione non è mai degenerata, al triplice fischio si è scatenata un’autentica rissa in campo, proseguita negli spogliatoi, alla faccia dello spirito olimpico, peraltro tradizionalmente estraneo al calcio. A questo proposito, una della immagini di questi Giochi che serberò fino all’insorgere dell’Alzheimer sarà il podio del judo della gara al limite dei 100 kg, con i quattro omoni – un azero, un georgiano, un uzbeko e un israeliano – che si abbracciano in instabile equilibrio sul gradino più alto, mettendone a dura prova la portata. (Considerazione a margine di un anziano giornalista o più semplicemente di un anziano: fino a Seoul in luogo dei tre rappresentanti delle ex repubbliche sovietiche avrebbe gareggiato un alfiere dell’Urss, il cui dissolvimento ha moltiplicato la concorrenza per gli atleti del resto del mondo). Dal calcio al pugilato il passo è stato decisamente lungo, visto che il Parco dei Principi è nel sud ovest di Parigi, mentre l’Arena Nord è per definizione dall’altra parte. Servono circa cento minuti, in parte a piedi, in parte in metro, il tragitto più lungo con la Rer, ma lo spettacolo che ci aspetta ripaga pienamente, non tanto per quello che accade sul ring, dove non ho visto fenomeni, ma per il calore del pubblico. Il pugilato olimpico è comunque spettacolare: condensando il match in nove minuti totali, le pause sono minime, anche nelle categorie più pesanti e clinch e trattenute varie diventano rare, a differenza di quanto accade tra i professionisti con il passare delle riprese. Il fatto poi che dopo ogni round il tabellone luminoso proponga i voti assegnati dai cinque giudici (10 punti al vincitore, da 7 a 9 per l’avversario) permette di confrontare le proprie sensazioni con il giudizio della giuria, spesso controverso, visti numerosi i verdetti per 3-2.
Ed eccoci, con deplorevole ritardo, all’unica medaglia di venerdì, l’argento dei campioni del mondo 2023 Stefano Oppo e Gabriel Soares nel due di coppia pesi leggeri, alle spalle degli irraggiungibili irlandesi, precedendo di un soffio (11 centesimi) l’equipaggio greco. Per Oppo si tratta della seconda medaglia olimpica, dopo il bronzo di Tokyo in coppia con Stefano Ruta, mentre il brasiliano (di Iguaçu: che meraviglia) trapiantato sul lago di Como era alla sua prima partecipazione olimpica, potendo peraltro vantare un oro mondiale nel singolo. L’armo non farà parte del programma olimpico di Los Angeles, dove esordirà il beach sprint, ovvero il canottaggio in mare, ma i due danno comunque appuntamento ai Giochi del 2028: “Abbiamo tutte le qualità per fare queste discipline”. Sarebbe anche una buona chiusa, ma non resisto alla tentazione di raccontare quanto successo nei pressi del lounge della sala stampa della boxe, dove un collega che poi ho scoperto essere olandese si è entusiasticamente complimentato per la maglietta della tournée europea del 2018 dei King Crimson, facilmente identificabile perché davanti ripropone la copertina di Larks’ Tongue in Aspic (1973, quinto album della band, sicuramente tra i migliori). “Il mio gruppo preferito – ha esclamato stringendomi calorosamente la mano -: li ho visti dal vivo soltanto una volta a Palmanova, mi trovavo da quelle parti in vacanza”. “Era la prima data italiana del tour del 2019 – mi sono pavoneggiato -, l’unica che non ho visto. Sono andato infatti all’Arena di Verona, a Torino (ho pensato che a un olandese Stupinigi non potesse dire granché) e a Perugia”. Silenzio ammirato. Split decision: 3-1, ma verdetto mai in discussione.
Qui la forza del tifo francese
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Le immagini sono di Franco Bassini