A partire dall’edizione 2016 la Biennale ha deciso l’attribuzione di due Leoni d’Oro alla carriera: il primo assegnato a registi o appartenenti al mondo della realizzazione; il secondo a un attore o un’attrice ovvero a personaggi appartenenti al mondo dell’interpretazione. Come autore il premio va Jerzy Skolimowski che per il Direttore Alberto Barbera è:” tra i cineasti più rappresentativi di quel cinema moderno nato in seno alle nouvelles vague degli anni Sessanta e, insieme con Roman Polanski, il regista che ha maggiormente contribuito al rinnovamento del cinema polacco del periodo”. Lo stesso Polanski (che lo volle accanto come sceneggiatore nel suo film d’esordio Il coltello nell’acqua), ebbe a predire: “Skolimowski sovrasterà la sua generazione con la testa e le spalle”. In realtà, la carriera del “boxeur poeta” (secondo la definizione datane da Andrzej Munk, il “padre” cinematografico di Skolimowski), durata ben oltre cinquant’anni con 17 lungometraggi realizzati, è stata tutt’altro che facile, segnata da continui dislocamenti – dalla Polonia al Belgio, dall’Inghilterra agli Stati Uniti, prima del definitivo ritorno in Patria avvenuto meno di dieci anni fa – che ne hanno contrassegnato l’opera: apolide in apparenza, perché assoggettata a strategie produttive eterogenee ed apparentemente diseguali, in realtà personalissima e originale in ciascuna delle opere in cui si è concretizzata. La trilogia realizzata in Polonia ai suoi esordi, Rysopis (1964), Walkover (1965) e Barriera (1966), fu per i Paesi dell’Est ciò che i primi film di Godard sono stati per il cinema occidentale, mentre i capolavori successivi – Il vergine (1967, Orso d’oro a Berlino), La ragazza del bagno pubblico(1970), L’australiano (1978, Grand Prix a Cannes), Mani in alto! (1981), Moonlighting (1982, migliore sceneggiatura a Cannes) – sono tra i film più rappresentativi di un cinema moderno, libero e innovatore, radicalmente anticonformista e audace. I film più recenti realizzati dopo il ritorno in patria – Quattro notti con Anna (2008), Essential Killing (2010, Premio Speciale della Giuria a Venezia) e 11 minuti (2015, in concorso a Venezia) – manifestano infine un’inesauribile e sorprendente capacità di rinnovamento, che lo collocano di diritto tra gli autori più combattivi e originali del cinema contemporaneo.
Invece come attore verrà premiato Jean-Paul Belmondo, icona del cinema francese e internazionale che ha saputo interpretare al meglio l’afflato di modernità tipico della Nouvelle Vague attraverso gli straniati personaggi di A doppia mandata (1959) di Claude Chabrol, Fino all’ultimo respiro (1960) e Il bandito delle 11 (1965, in concorso a Venezia) entrambi di Jean-Luc Godard, o La mia droga si chiama Julie (1969) di François Truffaut. In particolare, impersonando Michel Poiccard/László Kovács in Fino all’ultimo respiro, Belmondo ha imposto la figura di un antieroe provocatorio e seducente, molto diverso dagli stereotipi hollywoodiani ai quali lo stesso Godard si ispirava. La sua recitazione estroversa gli ha consentito poi di interpretare alcuni dei migliori gangster del cinema poliziesco francese, come in Asfalto che scotta (1960) di Claude Sautet, Lo spione (1962) di Jean-Pierre Melville e Il clan dei marsigliesi (1972) di José Giovanni, ottenendo un enorme successo popolare con i molti film successivi, daL’uomo di Rio (1964) di Philippe de Broca a Il poliziotto della brigata criminale(1975) di Henri Verneuil, da Joss il professionista (1981) di Georges Lautner a Una vita non basta (1988) di Claude Lelouch. “Un volto affascinante, una simpatia irresistibile, una straordinaria versatilità – ha dichiarato il Direttore Alberto Barbera nella motivazione – che gli ha consentito di interpretare di volta in volta ruoli drammatici, avventurosi e persino comici, e che hanno fatto di lui una star universalmente apprezzata, sia dagli autori impegnati che dal cinema di semplice intrattenimento”.