Nel 2016 ho assistito a 97 concerti, con gradi diversi di valore, intensità, emozione. Se dovessi sceglierne uno solo basandomi sulla qualità tecnica, per certi versi inattesa (almeno a questi stratosferici livelli) indicherei il live milanese – uno qualsiasi dei due proposti agli Arcimboldi – dei King Crimson, uno spettacolo musicalmente pirotecnico, senza sbavature, tale da lasciare senza parole anche chi, come me, non mette(va) né Robert Fripp né il progressive rock tra i suoi miti. Ma se guardo al miscuglio di sensazioni esplosive, all’atmosfera ineguagliabile, al clima sospeso che si è dispiegato sopra un’intera città (o forse un’intera nazione) fermandone il ribollire malinconico e allegro allo stesso tempo, allora non posso che dire: il live dell’anno è quello passato alla storia come Havana Moon, messo in scena dai Rolling Stones, impareggiabili nonnetti del rock. Scrissi il pezzo che segue per Il Giornale di Brescia del 28 marzo da L’Avana, dove avevo assistito a un evento eccezionale per Cuba: il live degli Stones, appunto, ovvero il primo concerto rock ufficialmente riconosciuto dal governo dell’isola. Un’esperienza magnifica e unica, anche se non possedevo lo sguardo bambino e puro che avevano in quell’occasione i cubani. Da allora sono passati pochi mesi, eppure Cuba è già un’altra cosa. Anche se la musica, in questo caso, non c’entra.
La notte in cui Cuba scopre il rock diventa una festa meravigliosa con tantissimi invitati. Quanti siano davvero, probabilmente non ce lo dirà mai nessuno: le stime del live dei Rolling Stones indicano mezzo milione di persone, ma non hanno riscontri oggettivi. Sta di fatto che il colpo d’occhio è impressionante con la luce naturale e diventa abbagliante con quella artificiale, rimpinguata da migliaia di faretti e flash di cellulari (perfino i militari posti a presidio non resistono alla tentazione). Notevole comunque la compostezza con cui il pubblico occupa il terreno, in principio quasi intimorito da ciò che mai aveva vissuto prima, a prescindere dall’assenza di apparati di sicurezza. Qui l’uguaglianza è conquista esibita. Quindi non ci sono privilegi da assecondare e men che meno un’area vip propriamente detta, giusto un paio di zone rialzate e recintate, ma senza servizi aggiuntivi rispetto a coloro che stanno nel prato: una per addetti ai lavori e giornalisti; l’altra, più glamour, per promoter, alti funzionari, i figli di Fidel Castro, star tipo Richard Gere, Naomi Campbell, Leo DiCaprio, oltre che familiari degli Stones (il solo Jagger ne aveva una cinquantina, a dimostrazione ulteriore dell’importanza che la stessa band ha assegnato all’evento). La scenografia è spettacolare nella sua magniloquente essenzialità, si affida a colori ora acidi ora più caldi, che trovano corrispondenza negli abiti sgargianti degli Stones; con la band inglese, ciò che conta davvero è la presenza scenica di Mick & Co, che riempiono il palco come pochi altri nella storia del rock. Bello che siano loro ad abbattere un muro, a portare il sound “tanto antico e tanto nuovo” a un paese che la musica ce l’ha nel sangue e la fa vibrare dentro corpi che si muovono flessuosi ed eleganti rispondendo a reconditi ritmi interiori; e che ora si apre a ciò che per decenni non ha avuto, se non attraverso (poca) TV, cinema, quel po’ di internet (veramente poco) che puoi trovare sull’isola. Lo sottolinea Jagger in ottimo spagnolo: “Era difficile, prima, ascoltare qui questo tipo di musica. Ma i tempi stanno cambiando e resto convinto che la musica renda migliore il mondo”. L’energia è la stessa sprigionata nello show italiano del 2014 al Circo Massimo e nelle varie tappe del tour mondiale: una inesauribile carica che parte da Jagger e trascina tutta la band. In America Latina Keith Richards è peraltro noto quanto Jagger e si prende la vetrina con un paio di blues di quelli che ama e che ha inciso nell’ultimo disco solista. Ma tutto lo show ha una fantastica matrice bluesy che lo percorre, mettendo in fila molti classici stonesiani, sin dall’inizio spumeggiante targato Jumpin’ Jack Flash – quando il riff della leggendaria chitarra a cinque corde di Richards suona la carica – e poi con Paint It Black, Brown Sugar, Sympathy For The Devil, Start Me Up, All Down The Line, Miss You, Gimme Shelter. La meravigliosa Angie riceve un’intro speciale da parte di Jagger, che ha parlato molto più del consueto: viene dedicata a tutti coloro che sono romantici, e chissà se da lassù David Bowie (che del pezzo è il protagonista occulto o, secondo altri, il possibile destinatario) avrà apprezzato ancora una volta. Il finale, quando ormai il pubblico si è definitivamente spogliato della timidezza iniziale e improvvisa gruppetti di danza in tutto il catino, avviene sulle note di You Can’t Always Get What You Want (in cui un coro locale accompagna Jagger) e di Satisfaction, che chiama, inarrestabile, la standing ovation conclusiva.