C’è un treno a Chicago che contraddice il verso di Paolo Conte: l’Amtrak City of New Orleans va esattamente nella direzione dei desideri per 1450 chilometri. Jazz, blues, rock, soul, Louis Armstrong, B.B. King, Elvis Presley, sono le note e i nomi che risuonano nella testa di chi ha appena staccato un biglietto del City of New Orleans. All’origine del nome di questo treno, che percorre i luoghi mitici della storia musicale americana, il titolo di una canzone composta da Steve Goodman. Da Chicago a New Orleans, la compagnia ferroviaria Amtrak propone dal 1971 un viaggio attraverso gli spazi naturali e i paesaggi culturali degli Stati Uniti, una visione mobile frammentata da una carrozza ferroviaria. Se le nuvole che guardiamo dall’oblò dell’aereo sono uguali dappertutto, viaggiando in treno scopriamo la singolarità dei ‘cristalli’ che configurano l’America. City of New Orleans si propone di tradurre in musica le suggestioni visive e ritmiche fornite dal movimento del treno e dalle sue stazioni, dall’ambiance sonoro delle città visitate.
Nell’intimità di una cabina o nella convivialità di un vagone panoramico, i passeggeri possono godere di una vista straordinaria sul Midwest e i territori del Deep South, delle paludi del Bayou o delle potenti correnti del Mississippi. Note geografiche che convertono le radici del blues in elisir funk, che annullando la distanza tra le rive del lago Pontchartrain e le coste africane, che cantano il gospel dando del tu a dio. La linea più popolare della rete Amtrak parte dalla Union Station di Chicago, teatro sacro dei cinefili per la celebre scalinata di The Untouchables, e arriva a New Orleans passando per Memphis. Bella come New York, più cool e meno visitata, Chicago con le sue mille meraviglie architettoniche, grattacieli anni Trenta, torri ultra moderne, ville prairie style, è il principio del viaggio. Se l’architettura a Chicago è sempre abbagliante, storica o contemporanea che sia, l’altro astro della città è al crepuscolo. È naturale, i building resistono nel tempo, i bluesman and women sono mortali. Nel 1985 per una manciata di dollari in numerosi club della città potevi ascoltare John Lee Hooker, Koko Taylor, Lonnie Brooks, Junior Walker ma le leonesse e gli alligatori del blues oggi sono troppo vecchi o ci hanno lasciati. L’ultimo sopravvissuto dell’età d’oro della Chicago blues è Buddy Guy, che possiede un club in South Wabash dove suonano i bluesman contemporanei, bianchi per la maggioranza. Probabilmente il blues è morto ma Chicago resta una città incredibilmente seducente e stimolante, che rinasce e si rinnova diversamente dalla vicina Detroit, no man’s land e incarnazione dell’agonia del capitalismo. Dalla varietà dei suoi quartieri, il loop urbano pulsante come Manhattan, Lincoln Park quieto e distinto, il South Side nero, gli enclavi ucraini e polacchi, downtown con le banche storiche, le borse di commercio e le sue stazioni ferroviarie, muove un treno lanciato verso la Betlemme della musica americana, trasformata in Atlantide da Katrina nel 2005. In mezzo, una visita si impone, c’è Memphis, città mitica e culla della lotta per i diritti civili nel cuore profondo dell’America.
Un’aria rock, una traccia blues, un frame resistente, tutti abbiamo Memphis conservata in un angolo della memoria. È lì che giravano intorno i personaggi di Jim Jarmusch (Mystery train), in una languida erranza tra i suoi fantasmi, i suoi ponti di ferro e le strade ferrate, la canicola e l’umidità, i tram di legno e gli edifici in mattone, i vecchi diner e la stazione centrale. Ficcata nel Tennessee, vasto spazio indistinto sulla riva est del Mississippi dove la gente vota inesorabilmente repubblicano e regge due stendardi, la religione e la nazione, Memphis è un ritiro orgoglioso, una riserva spirituale, una meditazione cool sulla sopravvivenza in un milieu ostile. Il passaggio obbligato per comprendere Memphis è il National Civil Rights Museum, in cui è custodita la storia del movimento dei diritti civili americani per l’uguaglianza tra bianchi e neri. Lì si incrociano gli infami (schiavisti, Ku Klux Klan, società segrete fondate da soldati confederati), si scoprono i martiri (il popolo nero, Michael Schwerner, Andrew Goodman, James Chaney, assassinati nel 1964 dal Ku Klux Klan), si celebrano gli eroi (John Brown, Frederick Douglass, Rosa Parks, Martin Luther King). Segnata da decenni di crisi, Memphis costruisce il suo avvenire sul suo passato e sui suoi “King”. Ma se una corona di fiori al The Lorraine Motel, dove il reverendo King è stato assassinato nel 1968, e il gospel straziante di Mahalia Jackson (“Trouble of the World”, lo stesso che canta nella sequenza finale di Lo specchio della vita di Douglas Sirk) rivelano un’assenza insopportabile e la presenza di un’eredità spirituale inestinguibile, Graceland, la casa comprata da Elvis Presley nel 1975, è a immagine delle nuove ambizioni di Memphis. Come le strade del blues, convertite in arterie puramente turistiche, Graceland sopravvive sullo sfruttamento nostalgico-commerciale, sul catechismo estenuante delle audio-guide e su una disneyzzazione che uccide le emozioni più sincere ma pare contribuisca a rilanciare l’economia della città.
Lo spirito originale e la verità sostanziale della storia del blues (B.B. King), del soul (Otis Redding, Al Green), del rock (Elvis Presley, Jerry Lee Lewis) e del country (Johnny Cash) si trova invece al Sun Studio, uno stabile di provincia che fu all’origine di un sisma culturale mondiale, dove i musicisti vengono ancora a registrare per provare a catturare il celebre “Memphis Sound”. Un suono che viene da lontano e si accomoda a fine Ottocento a Beale Street, principio del blues dove arrivavano musicisti vagabondi, dove suonavano le arie dolenti dei campi di cotone, le cui radici affondano nell’Africa. Beale Street oggi sta al blues come Hollywood Boulevard a l’età dell’oro hollywoodiana, è un colpo di trucco dell’industria turistica. Ma una promenade in prima mattina, quando i musicisti posano gli strumenti e gli operai e i netturbini riprendono possesso del territorio, invita in primo piano gli homeless predicatori che giurano di aver marciato bambini a fianco di Martin Luther King, conservando accesa la fiamma delle sue parole. Non siete obbligati a credergli ma sono loro le figure palpabili, viventi, eccentriche che incarnano la capacità profonda di seguire il ritmo della vita. Come il treno che rincorre il poderoso fluire del Mississippi, rallenta la corsa sul lago di Pontchartrain e annuncia l’arrivo imminente a New Orleans, che si impone progressivamente con la sua bellezza, con lo spleen dei suoi funerali e l’esultanza delle sue fanfare. Tutto comincia e tutto finisce a New Orleans, città martire (dopo Katrina) ma anche sfrontata, decisiva nella storia americana. C’è una qualità sottile nella cultura di New Orleans, una maniera non evenemenziale di suscitare l’interesse che non ha equivalenti al mondo, una complessità tonale che impone rispetto e accettazione del mistero. Ed é questo segreto impenetrabile a farne una città senza pari. Abbagli e vizi le donano la sua identità, esercitando un’attrazione in ragione della sua atmosfera o un profondo disprezzo in ragione del suo ‘ritardo’. Una città che non ha mai conosciuto la prosperità, una città di sopravvissuti, di uomini e donne appesi al loro destino. L’uragano é passato, i conflitti interiori restano. Katrina non ha fatto che rivelarli, ha esacerbato i sentimenti. La sensazione, camminando per Bourbon Street, svenduta ai turisti, é che Katrina abbia aggiunto una variabile a un’equazione che una vita non sarà sufficiente a risolvere. Qui la resistenza al destino, agli imprenditori venuti dal Texas, al governo che promette e dimentica si esprime con la musica. Creata, partecipata, perpetuata. Una musica che ha una storia profonda e che é in costante evoluzione. E sulla musica, sulla vera natura della musica, sul suo senso e la sua utilità, New Orleans si interroga. Cuore di questo processo e del processo di ricostruzione, collettivo e individuale, dopo Katrina, é Treme, il più antico quartiere afroamericano degli Stati Uniti. A un passo dal French Quarter, il santuario della second line è testimone del disastro politico, economico e umano che ha seguito il passaggio dell’uragano. Come la serie di David Simon, sontuoso studio etnografico, Treme suona la voglia divorante di ritrovare una voce, di ripiegare sul proprio passato per comprendere meglio il proprio presente. Con la musica per guida. Perché la memoria dev’essere preservata ma non per forza nella forma fissa di un museo. A Treme i ricordi e la storia si trasmettono senza cornici che ne ridurrebbero la portata. Katrina non ha distrutto tutto. Nonostante la sua violenza, l’uragano non ha spazzato via l’immaginazione degli uomini. A Treme la bellezza é sopravvissuta alla desolazione. Dopo averla vista e scoperta (con le orecchie), la si potrebbe dire la città più bella degli States. Ma New Orleans non ha alcun bisogno di essere classificata. Fine corsa.
Le fotografie sono di Marzia Gandolfi