I numeri ancora una volta parlano chiaro: dal 18 al 26 novembre al Torino Film Festival si vedranno 158 lungometraggi, 17 mediometraggi e 38 cortometraggi. Oltre 4000 sono i film arrivati da tutto il mondo e visionati dalla direttrice Emanuela Martini e dai suoi selezionatori (Pier Maria Bocchi, Chiara Borroni, Federico Gironi, Barbara Grespi e Federico Pedroni), da Massimo Causo con Roberto Manassero (sezione Onde) e da Davide Oberto coadiuvato da Paola Cassano, Mazzino Montinari e Séverine Petit (sezioni Tffdoc, Italiana.corti, Spazio Torino). Un festival trasversale, amato dai cinefili e dal pubblico che accorre numeroso tanto che le sale registrano anche nei giorni feriali il tutto esaurito. Anche per questo motivo un festival in controtendenza, come in controtendenza, da sempre, è la sua direttrice Emanuela Martini. L’abbiamo incontrata.
Partiamo dal Concorso: 15 film (di cui 7 opere prime, le altre sono opere seconde o terze) che provengono da altrettanti Paesi. La scelta quest’anno è stata ampia…
Decisamente, siamo stati costretti a lasciare fuori titoli che ci sarebbe piaciuto mettere in concorso. Alcune esclusioni sono state dolorose, ma siccome devono essere 15 e ci deve essere un minimo di rappresentanza geografica, abbiamo faticato non poco. Quest’anno non solo da noi, ma un po’ dappertutto, è particolarmente forte l’America latina: ci sono 4 film di quattro diversi paesi dell’America latina (e ce n’erano anche altri papabili che poi sono finiti in Festa mobile).
In Festa mobile, come sempre, si spazia dal cinema mainstream all’indie.
Sì, c’è Sully di Eastwood, il documentario su Roberto Bolle, Free State of Jones di Gary Ross con Matthew McConaughey che tra l’altro, in questo particolare momento è di un’attualità mostruosa perché racconta la storia di un soldato confederato, quindi del Sud, che a un certo punto diserta la guerra di Secessione e insieme ad altre persone, soprattutto dei neri, costituisce il libero stato di Jones che è antisegregazionista, antirazzista… Il film di chiusura è Free Fire di Ben Wheatley, uno dei più bravi tra i giovani registi inglesi, che è assolutamente esplosivo: 13 persone, metà dell’IRA, metà trafficanti d’armi, chiuse in una fabbrica dismessa, per uno scambio di armi contro soldi. Dopo un quarto d’ora dall’inizio esplode la sparatoria che dura, ininterrotta, per tutto il film. È davvero molto divertente, pieno di battute. L’apertura è invece affidata a Between Us, opera seconda americana che se l’è battuta per entrare in concorso e racconta di una coppia felice che il giorno del matrimonio litiga e ognuno per quella notte se ne va per conto suo e noi li seguiamo. Il regista Rafael Palacio Illingworth sta molto addosso ai protagonisti (Olivia Thirlby e Ben Feldman, bravissimi) e ricorda, in alcuni momenti, Cassavetes, soprattutto nei faccia a faccia tra i vari personaggi. E poi tantissimi altri film: Elle di Paul Verhoeven, L’avenir di Mia Hansen-Løve, Le fils de Jean di Philippe Lioret, Rester vertical di Alain Guiraudie…
Il Gran Premio Torino quest’anno viene dato a Christopher Doyle, direttore della fotografia.
È uno dei più grandi direttori della fotografia della generazione dei sessantenni, e anche del mondo. Ha lavorato in otto film di Wong Kar-wai e tutti grandissimi, poi con Zhang Yimou, ma anche con Jarmusch, Van Sant e viene definito “la rockstar della fotografia”. Un po’ ci gioca. Intanto questo signore di origine australiana, si chiama anche Du Kefeng perché, dopo aver girato tutto il mondo, è arrivato a Hong Kong, ha imparato la lingua (parla correntemente un mucchio di lingue comprese cantonese e mandarino) ed è naturalizzato cinese. Devo dire che l’idea di dargli il Gran Premio Torino parte dalla visione, a luglio, di Wind, un mediometraggio su di lui, realizzato da un regista cinese, in cui Doyle racconta la sua vita in primo piano, macchina fissa, intervallato dalle immagini meravigliose che ha fatto per tutti gli autori con cui ha lavorato. È molto stravagante (nella prima parte parla in inglese, poi, dopo lo stacco su un bellissimo paesaggio, si torna sul suo primo piano e lui da lì in avanti parla in cinese). Doyle sostiene che lo chiamino “la rockstar della fotografia” per la sua somiglianza con Keith Richards, il che effettivamente è abbastanza vero, soprattutto in certe pose. E racconta che quando i produttori cercavano di convincere Richards a interpretare il terzo episodio della saga dei Pirati dei Caraibi, lui non voleva e a un certo punto, all’ennesima insistenza, ha detto: «Io non lo voglio fare, perché non lo chiedete a Chris Doyle?». Doyle si chiede come sia possibile perché lui Keith Richards non lo conosce, ma «si vede che lui conosce me». Non so se nel frattempo i due si siano conosciuti, però questo è il personaggio, sicuramente bizzarro, oltre che grandissimo.
Quest’anno non poteva mancare l’omaggio al punk, con la sezione “I Did It My Way: essere punk”.
Era il suo anno perché gli inglesi, fintamente, dicono che è l’anniversario. Non è vero fino in fondo, nel senso che il 26 novembre 1976 è uscito il primo singolo dei Sex Pistols Anarchy in the U.K. e quindi gli inglesi, che celebrano da gennaio, hanno deciso che questo fosse il quarantennale di nascita del punk. In parte è vero, in parte è falso perché in realtà le origini, le basi musicali, erano americane (i Ramones erano già nati anche se non li conosceva nessuno). E lo testimonia il documentario The Blank Generation. Il produttore Malcolm McLaren aveva visto uno di questi gruppi a New York e aveva cercato di convincere la band a seguirlo a Londra, ma senza successo. McLaren e Vivienne Westwood, sua moglie, avevano già il negozio di King’s Road e sono loro a essersi inventati il punk come sottocultura. L’Inghilterra è sicuramente il paese dove è attecchito di più come vera e propria contorcultura, in America non è stato così forte né così duraturo. In Inghilterra è andato avanti per un sacco di tempo, basta pensare ai film di Shane Meadows e a tutte quelle sfaccettature politiche assolutamente contradditorie l’una con l’altra perché il punk nasce anarchico, ma ci sono anche i nazipunk… Insomma in realtà il gioco culturale sul punk è molto complesso. In programma ci sono sei film dal 1976 (The Blank Generation, appunto) al 1986 (Sid and Nancy).
Dopo il successo della scorsa edizione, torna, nel primo weekend, la notte horror.
Sì, con tre film: Sam Was Here di Christopher Deroo, anche questo opera prima. Per definirlo direi che è come se un bel giorno a Carpenter fosse venuto in mente di fare il remake di Duel perché la prima parte ricorda il film di Spielberg – ovviamente con un’ambientazione del tutto diversa -, mentre la seconda non è un horror in senso stretto, ma piuttosto un thriller horror, con una tensione enorme. Il terzo è Sadako V Kayako, le due “mostre” giapponesi, quella di Ringu e quella di Ju-On che si incontrano e scontrano sullo schermo per la prima volta. Tra i due, c’è un film a metà strada tra le sezioni “AfterHours” e “Punk” ovvero The Return of the Living Dead di Dan O’Bannon – un american cult assoluto della metà degli anni 80, citato di dovere tra i film punk – che mette in scena lo scontro zombie-punk.
Torino è un festival in controtendenza anche perché continua a proporre le retrospettive, cosa che gli altri festival hanno lasciato cadere.
C’è un unico festival che è famoso ancora per le retrospettive, ed è la Berlinale. Ed è di quattro giorni fa la notizia sulla retrospettiva 2017 della Berlinale che è uguale alla nostra, ovvero post-apocalittica, di fantascienza, con gli stessi presupposti teorici e gli stessi discorsi… Chiaro che nessuno si inventa niente e le cose sono nell’aria, però non mi dispiace affatto di essere arrivati prima di Berlino.
Quest’anno, quindi, seconda parte di “Cose che verranno. La terra vista dal cinema”.
Chiamata anche “Pecore elettriche”, è il proseguimento dello scorso anno, non era e non è cronologica. Quest’anno ci sono titoli anche molto raffinati: i cortometraggi di Godard, La jetée di Marker, A Boy and his Dog di L.Q. Jones del 1975 che è uno dei dieci cult assoluti di Quentin Tarantino, Ikarie Xb1 di Jindřich Polák di inizio anni 60, che è stato appena restaurato, un po’ spaziale ma con un occhio alla Terra del XX secolo molto interessante (si dice che Kubrick per 2001 si sia ispirato a questo film). Poi ci sono anche film più noti come Rollerball, A.I di Spielberg, La morte in diretta di Tavernier, assolutamente straordinario e preveggente rispetto all’interesse morboso per questo tipo di argomenti. E ancora due film di genere che non si poteva non mettere come Generazione Proteus e La fabbrica delle mogli (quello bello, senza lieto fine, non quella bruttura del remake con Nicole Kidman).
Quest’anno tornano come ospiti due ex direttori: Nanni Moretti e Gianni Amelio.
Nanni viene a presentare la versione restaurata di Palombella rossa e Gianni L’ora di regia, il libro che ha scritto con Francesco Munzi e che parla di cinema. Sono davvero molto contenta che entrambi abbiano accettato il nostro invito.
I film che ha scelto il guest director Gabriele Salvatores sono molto in sintonia con il tuo Festival.
Gabriele ha capito perfettamente qual era lo spirito del Festival. Ha azzeccato subito i “Cinque pezzi facili”, ovvero i cinque film per i quali non è diventato avvocato. Ovviamente ci ha dato una lista più lunga di titoli, però erano quelli: c’erano due film di Altman, Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, oltre a una serie di film che sono passati negli anni recenti del Festival nelle varie retrospettive. Vuol dire che lo spirito è esattamente quello. E infatti c’è un Nouvelle Vague (Jules et Jim), un Free Cinema (If…), due New Hollywood che non avevamo fatto (Alice’s Restaurant e The Strawberry Statement) e un Antonioni (Blow-Up).
Ultima domanda. Se dovessi consigliare tre titoli davvero imprescindibili di questa edizione, quali sceglieresti?
Non ho dubbi: Il cacciatore di Cimino, Palombella rossa di Moretti e la versione da 198 minuti di Intolerance di D.W. Griffith, restaurata dal MoMa per i 100 anni dall’uscita.