Sono inquieti e tormentati i personaggi di Gus Van Sant. Lo sono sempre stati, nella loro dolcezza disarmante e lieve. Hanno ferite nascoste e taciute, ma le loro espressioni tradiscono un desiderio di fuga, che si realizza in molti modi e dentro i racconti più diversi, accomunati tutti da una ricerca profonda e inconoscibile, frustrante e al tempo stesso esaltante. Sono punti di arrivo e di partenza i luoghi filmati e agiti dal regista di Portland, fin dal suo esordio in 16mm con il folgorante Mala Noche (girato in poco tempo, in bianco e nero e con un budget di appena 25.000 dollari), che gli apre la strada verso quel cinema leggero e fisico, anticonformista e rigoroso, animato da figure di giovani in lotta con la vita e con la loro stessa identità. E c’è sempre un contesto sociale da mostrare, o che affiora prepotentemente, per parlare del presente con occhio disincantato: gli immigrati clandestini, le derive giovanili nelle periferie cittadine, le ossessioni pop del mediatico mondo contemporaneo, per fare solo degli esempi. E poi ci sono le tonalità mosse e in costante divenire di film intensi e intrisi di istanze oniriche. Si pensi a Drugstore Cowboy, visionario e flagrante, e Belli e dannati, con il suo andamento da tragedia shakespeariana, oppure alla violenza estatica di Elephant e Paranoid Park, e all’esistenzialismo spinto alle estreme e opposte conseguenze in Gerry, Cowgirls ‒ Il nuovo sesso e Last Days. Gus Van Sant porta avanti il discorso sovversivo ereditato dalla cultura underground, e lo addomestica talvolta, in film utili, quasi “dimostrativi”, ma non per questo meno ispirati come Milk e Promised Land, o adeguandolo a racconti incantati e crudeli come L’amore che resta e La foresta dei sogni, portatori di una sofisticata e coerente ricerca formale. Ma Gus Van Sant non è solo regista, è un fotografo dallo sguardo acuto e ispirato, pittore vivace e a tratti onirico, musicista sorprendente e, soprattutto, capace di raccogliere in una forma del tutto personale le suggestioni che riceve da tutte le arti (da vedere la mostra in corso fino al 9 gennaio 2017 al Museo del Cinema di Torino, che raccoglie tutto questo e molto altro).
Che effetto fa vedere raccolte in una mostra tante tappe della sua vita artistica?
Avere una mostra che raccoglie gran parte del tuo lavoro è come aprire un armadio o un baule in garage e riguardare il proprio passato. E poi mi sorprende sempre come le mie opere possano generare idee e concetti su ciò che io ho cercato di rappresentare. In questa mostra ci sono anche alcuni dei miei cortometraggi che non erano mai stati mostrati prima per via della fragilità del supporto. Ora sono stati digitalizzati dall’Academy Award e resi disponibili. Uno di questi è Switzerland, un film su un giovane di Portland, Mike Parker, cui mi sono ispirato per Belli e dannati. Ricordo che avevamo ricreato un finto casting attorno a lui, una finta intervista, in cui lui racconta se stesso e la sua vita. In mostra ci sono anche molte foto che lo ritraggono, a dimostrazione del fatto che è stata la vita reale di questo giovane ad aver influenzato la nascita di quel film.
Rivedendo Belli e dannati, però, si ha l’impressione che ci siamo molte diverse “fonti”
Belli e Dannati è un film che sta tutto dentro il perimetro di me stesso. All’inizio non c’era nessun materiale di riferimento o di fonte di ispirazione se non delle persone che io conoscevo a Portland e che mi hanno ispirato. È un film fatto a partire dalla mia vita, dalla mia esperienza, da Shakespeare, da storie che avevo scritto, da letture che avevo fatto, come Sam Shepard e Samuel Beckett. È un film in cui non mi sono preoccupato di dare un senso alla storia, ma di trasmettere delle emozioni. Volevo fare una sorta di adattamento dell’opera di Shakespeare nel tentativo di modernizzare il personaggio di Falstaff, che in questa storia è diventato Bob. Poi c’è stata una seconda stesura incentrata sul personaggio di Mark Waters e sui suoi rapporti con un concessionario di automobili tedesco. Infine la terza versione, incentrata su due ragazzi ispanici che partivano da Portland per andare a trovare la famiglia in Spagna. L’idea era di seguire questi ragazzi di strada di Portland, tra cui Mike Parker. All’epoca c’erano tanti hotel a Portland vuoti e noi abbiamo usato alcuni di essi come set.
Quanto ha contato lavorare con River Phoenix?
Quando ho lavorato con lui aveva appena compiuto vent’anni e quando ha vinto l’Oscar per Stand by Me dimostrava meno dei suoi 16 anni. Sono stato molto fortunato a lavorare con lui. Prima di allora lui non aveva mai avuto occasione di lavorare al di fuori dal sistema di Hollywood, anche se la sua famiglia viveva lontano da Los Angeles. È stato davvero straordinario, entusiasta e di grande aiuto nel suo modo di contribuire a creare il suo stesso personaggio. Scrivendo la sceneggiatura non avevamo neppure pensato a lui o a Keanu Reeves come protagonisti, ma poi abbiamo osato e abbiamo chiesto la loro disponibilità. Il fatto che si siano dimostrati interessati ha contribuito a cambiare il tessuto stesso della storia. In origine il film doveva essere come Ladri di biciclette, con attori non professionisti che interpretavano dei personaggi inventati. In parte il progetto iniziale è stato mantenuto perché a quel punto abbiamo usato storie vissute direttamente dei River Phoenix e da Keanu Reeves, o da altri. La stessa malattia di cui soffre il personaggio di River Phoenix, la narcolessia, è ispirata proprio a Mike Parker, che la usava spesso come strumento di difesa.
Tra i suoi film, Gerry, è quello che mi sembra più sperimentale, con il silenzio e i piani sequenza continui che rendono quasi irreale l’atmosfera.
Quel film è un insieme di tante cose. All’inizio doveva essere la storia di due ragazzi molto giovani e con poca esperienza, che decidono di partire in autostop dai sobborghi di Boston verso il New Mexico. Questa era la storia reale, un articolo che Matt Damon aveva letto e che propose a me e Casey Affleck di trasformare in film. All’inizio volevamo lavorare senza sceneggiatura, ma ben presto ci siamo resi conto che dovevamo scrivere qualcosa, almeno una traccia. In quella fase avevo in mente di fare un film come quelli di Cassavetes attorno a due protagonisti che si confrontano e discutono di vari temi nel loro viaggio attraverso il deserto. Una sorta di dialogo incessante. Ma quando abbiamo iniziato a girare e a provare alcune scene, mi sono trovato di fronte al fatto che Matt e Casey si rifiutavano di parlare e così il film è diventato sempre meno “alla Cassavetes” e sempre più “alla Béla Tarr”. Parlando poi con il direttore della fotografia abbiamo deciso di usare lunghi piani sequenza come aveva fatto Chantal Akerman, i cui film avevo visto recentemente. A questo punto i dialoghi non erano più così importanti, potevano esserci o non esserci, ma la storia non dipendeva più dai dialoghi, che erano completamente sganciati dalla progressione del film, dall’azione. Quello che per me era importante era la durata del viaggio e la sensazione di astrazione tutta intorno.
Quanto Elephant è stato influenzato dal lavoro per Gerry?
Sul set di Gerry ho iniziato a pensare a Elephant. Da un po’ di tempo avevo deciso di fare un film sulla strage di Columbine, ma avevo incontrato molte resistenze da parte delle televisioni rispetto alla mia proposta di portare avanti un’indagine in forma di finzione sulle ragioni che avevano creato quel massacro, perché sulla strage di Columbine erano state scritte pagine e pagine di articoli ma in tutti l’approccio era molto generico. Ho trovato solo un produttore disponibile, un dirigente della HBO che, però, mi ha proposto di fare un film sul Elephant, il documentario di Alan Clark sugli scontri avvenuti in Gran Bretagna tra protestanti e cattolici, che era stato mandato in onda dalla BBC proprio nei giorni degli scontri. Però le cose sono cambiate proprio alla fine della lavorazione di Gerry, perché il mio rapporto con il direttore dalla fotografia si era talmente consolidato che abbiamo deciso di lavorare su Elephant nello stesso modo, con una sceneggiatura essenziale, proprio secondo lo stesso principio di Gerry. A quel punto HBO ha accetto il mio cambiamento di rotta perché l’approccio che avevo scelto di adottare era diverso dal solito. Quello che volevo era di esaminare la ragioni che hanno portato questi due studenti a fare quello che hanno fatto, considerando anche cose apparentemente semplici come la noia degli studenti. Volevo sentire gli studenti, perché quella strage era nella loro mente e nelle loro conversazioni ed era quindi importante adottare il loro punto di vista.
Qual è il suo rapporto con la televisione?
Ho appena finito una serie televisiva dedicata a tre attivisti per i diritti degli omosessuali ambientata a San Francisco in un periodo che va dagli anni Settanta fino al 2003. Si intitola When We Rise, è prodotta dalla ABC e dovrebbe andare in onda negli Stati Uniti in inverno, ma anche questo dipende dalle elezioni presidenziali. Sempre per la televisione sto lavorando ad un progetto di serie televisiva su un fumettista disabile di Portland con cui sono cresciuto che disegnava ogni giorno una vignetta sul giornale locale. Era un progetto di Robin Williams, che aveva comprato i diritti del suo libro, passandomi poi il testimone, alla sua morte, due anni fa.