Jane Birkin: un’icona di immortalità

Blow Up (1966)

La prima volta che m’imbattei in Jane Birkin sullo schermo fu nei due gialli britannici tratti dai romanzi di Agatha Christie: Assassinio sul Nilo e Delitto sotto il sole. Nel primo ricopriva il piccolo ruolo di Louise Bourget, cameriera della vittima designata, avida ed eternamente malinconica per le sue pene d’amore; nel secondo, invece, è Christine Redfern, moglie anemica di un belloccio sciupafemmine, tanto da venire appellata «piccola oca» dal resto dei personaggi. Birkin, all’epoca dei due titoli, aveva rispettivamente 32 e 35 anni: i tempi di Blow-Up e di La piscina erano terminati, ma quell’erotismo acerbamente infantile continuava a risaltare imperterrito, violento allo sguardo ma con quella delicatezza nel sussurrare le battute dei copioni fatta di sospiri turgidi, «Oh oui, je t’aime…», in antitesi alla malinconia dei suoi occhi. La swinging London era un ricordo lontano, le relazioni con John Berry e con Serge Gainsbourg già naufragate, Jacques Doillon era da poco entrato nella sua vita sentimentale e, soprattutto, artistica per darle riscatto dopo anni di «Jane è bella, sa cantare, ma a recitare…».

 

La bella scontrosa (1991)

 

Doillon non riuscì nell’intento. A risollevare la filmografia “matura” di Birkin ci penseranno Rivette (L’amore in pezzi, La bella scontrosa, Questione di punti di vista), Godard (Cura la tua destra…), Marion Hänsel (Polvere)… e anche Agnès Varda col dittico composto da Kung-fu Master e da Jane B. par Agnès V. (nel cast anche la figlia Charlotte Gainsbourg – condivideranno lo stesso set 32 anni dopo col documentario Jane by Charlotte), quest’ultimo l’effettivo testamento cinematografico in cui il sogno «proibito» degli anni Sessanta e Settanta rivela molteplici sfumature iconografiche, trasformandosi in Venere di Urbino con jeans e Converse, in Jane di Tarzan, in Stanlio – a fare Ollio ci pensa Laura Betti, emblema dell’antidivismo specularmente congeniale alla controparte in questione.

 

Jane by Charlotte (2021)

 

Birkin era anche questo, un terremoto di emozioni e di azzardi, controcorrente pure nelle scelte più mirate: dopo l’affermazione con Antonioni e la consacrazione a sex symbol imbronciata grazie a Deray, troviamo Alba pagana (già conosciuto come Delitto a Oxford) di Ugo Liberatore, La morte negli occhi del gatto di Antonio Margheriti, Il montone infuriato di Michel Deville… per lei non esistevano distinzioni (ed è giusto così) tra Alain Delon e Cochi Ponzoni o tra Joe Dallesandro e Peter Ustinov. E poi, con l’ingresso nella maturità i ruoli e i copioni si affinavano sempre di più, le scelte si facevano ancora più ragionate (i camei per Resnais e Ivory), il suo cognome si amplificò ulteriormente grazie alla maison Hermès con la borsa creata in suo onore (lei stessa rivelò che gliene occorreva una capace di contenere anche i biberon per Lou, avuta da Doillon)… Non ha senso raccontare le sue questioni private, in questi giorni ci hanno già pensato troppe persone a parlarne e a scriverne; preferisco limitarmi a scorrere le innumerevoli immagini pubblicate tra social e giornali per renderle omaggio; immagini che ci stanno insegnando, tutt’ora, quanto significhi essere un’icona: d’erotismo, di bellezza, di bravura, d’accordo ma, soprattutto, d’immortalità.