Paola Turci, parliamo di cinema. I festival la stanno adottando. Nel 2016, giurata al festival lgbt di Torino. Nel 2017, membro della giuria della sezione Cineasti del presente al festival di Locarno. Come sta vivendo questa nuova esperienza?
Il fatto stesso di stare in una giuria ti pone in una condizione di responsabilità, devi mettercela tutta per fare del tuo meglio, per essere più attento e concentrato possibile. Penso sia veramente un’impresa quella di valutare una forma d’arte – che può essere una canzone, un film o altro… Qui a Locarno, in uno dei festival più importanti che il cinema abbia, lo paragono a Berlino, sono stata chiamata a fare parte della giuria di una sezione di ricerca, che ospita cineasti contemporanei, giovani, alle loro prime esperienze se non al loro debutto assoluto, con stili che escono dalle convenzioni. Avendo già alle spalle l’esperienza di Torino, posso affermare che sono pronta a vedere qualsiasi cosa… In quell’occasione avevo visto dei film affascinanti, uno in particolare, di cui parlavo proprio in questi giorni con uno dei giurati, ed è un peccato che non vengano distribuiti. Anche ora ho la fortuna di vedere opere di grande valore, tra le quali un’opera prima che mi ha colpita molto. Pur essendo un’appassionata di cinema sento la responsabilità di quello che sto facendo. E di condividerla con delle persone meravigliose, che sto scoprendo giorno dopo giorno, a partire dal nostro presidente, il regista egiziano Yusri Nasrallah, che considero una persona deliziosa e di grande cultura. Sono stata ben accolta da tutti, pur essendo in qualche modo una… forestiera in questo ambiente.
Le sue canzoni descrivono sempre quella che si può definire un’esplosiva flagranza dell’esserci, nel senso di saper cogliere nelle situazioni narrate istanti e flagranze rendendole attraverso una parola, un gesto, sia su un palco sia nei video musicali. Spostando il discorso sul cinema: che cosa cerca in un film? In che cosa si identifica?
Intanto, grazie per questa raffinata definizione di quello che faccio. Io non riesco a definirmi, agisco d’istinto… Premetto una cosa. Ho studiato teatro e il metodo recitativo sui libri di Stanislavskij, di Strasberg; ho fatto dei lavori teatrali e stavo anche per diventare un’attrice – quindi sono una di quelle fastidiosissime spettatrici critiche che osserva il lavoro dell’attore, quello del regista, ho un occhio attento nei confronti di quello che vedo, che ricevo, godendomi allo stesso tempo il film, la storia, da cui mi aspetto emozioni. Davanti allo schermo sono un po’ come una ragazzina… Ogni volta è così per me… Mi piace non sapere quello che sto per vedere, magari sapere solo il luogo di provenienza del regista, del film, mentre la storia mi piace scoprirla, e mi piace l’idea di capirla oppure no. Credo che queste siano tutte sensazioni che devono arrivare da quello che vedi. Poi, certo, un attore deve essere assolutamente convincente, mi deve far credere, amare, odiare. Alla fine devo uscire sentendomi dentro il film, immersa in esso, sentire che sono diventata un personaggio, che ho la sua voce. A volte succede, ma non sempre, e mi dispiace quando rimango delusa, quando vedo delle forzature nello stile, questione che ho superato da tempo. Perché ogni volta ho la propensione ad aspettarmi una grande emozione, un colpo, un pugno allo stomaco, un dolore o delle risate – comunque, qualcosa di forte.
Che cosa non le piace invece incontrare in un film? Che cosa le dà fastidio?
Come dicevo, le forzature, che mi distraggono da quanto sto vivendo. È come quando incontri una persona che ti piace e poi lei per farsi bella dice cose che vanno oltre, delle quali non c’è bisogno. Mi è capitato di vedere dei film con una storia forte ma con un eccesso di messa in scena che ti porta da un’altra parte, a non credere più neanche alla convinzione dell’autore di fare quel determinato film. Viviamo in un tempo pieno di eccessi, necessari secondo chi li usa perché altrimenti non verrebbe notato. Io credo proprio il contrario. Se sei esattamente al cento per cento di te stesso, e non meno ma non oltre, allora puoi colpire. È un equilibrio che si conquista. I ragazzi utilizzano determinati mezzi per cercare di imporsi, con se stessi, nella società, per farsi notare e essere ammessi nel gruppo. Lo stesso vale per un regista, per un film. Ho da poco visto un film di questo tipo, già in possesso di una storia vera, drammatica, forte. Non c’era bisogno di aumentare quel dolore con degli espedienti, che deviano la tua attenzione e nuocciono alla credibilità dell’opera, solo perché vuoi esibire il tuo narcisismo. Mi rendo anche conto che sia rischioso per un regista esordiente azzardare ad essere se stesso, senza nemmeno avere dei rimandi eccessivi. E penso che anch’io sono stata così quand’ero adolescente, mi mancava tutto e quindi cercavo delle cose anche fuori da me, soltanto delle indicazioni su cosa potesse essere più attraente e convincente, e me le buttavo addosso, ma non erano mie.
Quanto la seduce lo sguardo del regista?
Il suo sguardo è fondamentale. Torniamo al lavoro dell’attore. Io lo vedo attraverso l’occhio del regista. Quando un attore dà un buon risultato è grazie al talento di chi sta dietro la macchina da presa, che ha saputo indirizzarlo e modificarlo, trasformarlo affinché abbandoni se stesso per interpretare e diventare quel personaggio che così diventa una persona. In questi giorni mi è stato chiesto se mi piacerebbe affrontare una regia. Non ci ho mai pensato e non ho alcuna attrazione verso quell’altra parte, un po’ come nella musica. Io amo avere un produttore artistico, avere persone intorno a me con le quali collaborare, mi piace che chi suona le tastiere sappia usare il computer per creare degli effetti e non sia io a improvvisare, anche se mi piace provare tutti gli strumenti e fare ogni cosa. Però, sopra tutto, apprezzo la solidità di chi fa il suo mestiere. Poi, ci sono sia registi sia produttori che, dal mio punto di vista, sono meno capaci, meno interessanti. Inoltre, l’occhio del regista è fondamentale per il montaggio. Anche il montatore, e ce ne sono di bravissimi, è guidato dal regista, è quest’ultimo che capisce il ritmo, quando e quale deve essere la scena successiva. È esattamente come una canzone o un racconto che ha bisogno del suo movimento.
Quest’anno a Locarno la proiezione dei film è preceduta da segmenti che compongono la sezione #movieofmylife. A questo proposito, lei ha il film della sua vita? C’è un suo primo film, una prima visione che, in una qualsiasi età, l’ha segnata?
Ho il primo ricordo, ma non è stato il mio primo film. Ed è legato a The Elephant Man di David Lynch, anche se solo dopo ho scoperto che fosse di Lynch. Alla fine, in ogni cosa che vediamo cerchiamo noi stessi, no? Anche quando non lo vogliamo. Se ci colpisce qualcosa è perché ci coinvolge e coinvolge la nostra vita, un nostro vissuto, un nostro stato d’animo… In quel periodo ero piccola e mi sentivo molto… particolare, diversa, mi sono sempre sentita un po’… brutta, senza saperlo, senza rendermi conto… Quell’uomo, deriso da tutti perché diverso, mi ha sempre commossa molto e mi ci sono ritrovata nel suo schermirsi di fronte agli altri, nell’avere paura degli altri e del loro giudizio. È una cosa che mi porto dentro fin da quando ero bambina, mi sono sempre sentita… Calimero, il cigno nero di casa che sentiva di non essere felice, di essere inadeguata, appunto diversa, non solo dagli altri ma anche dal resto della famiglia. Non era solo un fatto estetico, per esempio se qualcuno mi diceva “come sei piccola” oppure, come faceva mia mamma, di sorridere perché “l’unica cosa bella che hai sono i denti”, ma anche di come mi rapportavo socialmente, insomma… ero un po’ un’asociale, distaccata dal resto, soltanto perché profondamente timida, profondamente chiusa e profondamente insicura. E allora quell’uomo ero io, mi apparteneva, mi faceva piangere perché guardavo me stessa. Oggi sono un’altra persona, però quel film, che non ho mai più rivisto, mi colpirebbe comunque… Un altro film che mi ha turbata è stato Frances con Jessica Lange e Sam Shepard, che abbiamo perso da poco, basato sulla storia vera di Frances Farmer, anche lei un’anima diversa che voleva esprimersi ma non le era possibile.
Il corpo, la sua rappresentazione, nel suo lavoro è centrale. E nel cinema?
È molto importante. Per me, il corpo è la bellezza, la raffigurazione di un’opera d’arte. Mi piace vedere il bello, quello visibile agli occhi, ma questo bello si esprime non con i tratti, non con i lineamenti, ma con una personalità, un modo di essere. Ci sono delle donne e degli uomini non oggettivamente belli ma profondamente affascinanti, erotici, in quanto esprimono un mistero così… luminoso e allo stesso tempo scuro, tenebroso. Per me quella è la bellezza, nel senso di come un uomo o una donna si pone con il proprio corpo. Io ero innamoratissima di Gary Oldman, e non si può dire che esteticamente sia un bell’uomo, ma per me aveva un fascino assoluto.
Nel suo libro autobiografico Mi amerò lo stesso ricorda i primi passi di una possibile carriera d’attrice, il provino con Ettole Scola a Cinecittà (“Sono lanciatissima: ho voglia di recitare sul serio”) e, dopo “l’incidente che ha capovolto la mia vita”, scrive che “io spegnevo il desiderio di diventare un’attrice”. Se ora le chiedessero di fare un film, accetterebbe?
Sì. Subito.