Il titolo originale era ben più pregnante: A Most Violent Year, che alludeva ad un intero sistema corrotto e violento e all’ambiente invadente e tentacolare del film. Con 1981: Indagine a New York, invece, si rischia l’equivoco poiché l’attenzione si focalizza tutta sul giallo/thriller di una storia che, al contrario, cerca di allontanarsi dal genere (o dai generi che sfiora). Il terzo film da regista J. J. Chandor è meno preciso di Margin Call e più dispersivo di All is Lost. Rarefatto e smarrito, è ambientato nella New York del 1981, considerato dalle statistiche il più violento della storia metropolitana. Al centro del racconto personaggi in bilico tra il bene e il male, i cui legami sono solo accennati, ma che si intuiscono essere profondi e tortuosi. Abel Morales è a capo di un’organizzazione in crescita che tratta olio combustibile, ma i suoi camion vengono derubati da oscuri malviventi che seminano il panico tra gli autisti, mentre un procuratore rampante indaga sui suoi libri contabili, convinto di poter trovare materiale che scotta. Un inverno infuocato, dunque, per l’ispanoamericano Abel, fissato con la legalità e la correttezza negli affari (ma ha sposato la figlia di un boss mafioso che pare Lady Macbeth), che rischia di affondare proprio nel momento in cui cerca di ampliare la sua attività. Eppure il fuoco è solo una figura retorica.
Perché in questo film non pare esserci l’epos di cui si parla, invece, nei dialoghi (umiliati dal doppiaggio) e che ci si aspetta, vista la dislocazione dei personaggi, posti ai margini della città, in case isolate o blindate, in spazi ampi e vuoti, come fossero tutti ancora incompleti e sguarniti, in attesa di dimensione e prospettiva. Tuttavia è affascinante il modo in cui Chandor crea connessioni tra gli uomini e il loro ambiente: non a caso si insiste sul senso di spaesamento che le immagini talvolta comunicano. E non si tratta solo delle grandi stanze bianche della nuova villa di Abel, o degli esterni innevati dove si compiono inseguimenti e strane trattative, ma dei cunicoli, dei corridoi sotterranei della metropolitana, delle strade tra i magazzini sul fiume, da dove si vede Manhattan come fosse un miraggio. Davanti a questo fondale da cartolina, ci si perde e si rischia di tradire tutti i propri principi. Accade al giovane autista immigrato, e accade allo stesso Abel. Il primo finisce per scegliere la strada della paura, il secondo la coerenza coi suoi ideali di vita. Sono storie di uomini soli quelle predilette da Chandor, dunque, coinvolti in avventure solitarie, apparentemente irragonevoli ma caparbie e coraggiose. Peccato che si sia lasciato andare in una contestualizzazione troppo appariscente degli anni Ottanta, con colori opachi e luci soffuse, e che il ritmo non sempre segua quello dell’azione. Certo, qui la scelta cade sulla dilatazione del tempo senza punti di riferimento, con il risultato che un mese sembra dissolversi in una sequenza di eventi simbolici, allontanandosi dalla più tradizionale cronaca di trenta giorni pericolosi e difficili. Non c’è una concatenazione di causa ed effetto, perché – sembra volerci dire Chandor – tutto è già stabilito e non ci sono azioni che possano cambiare lo status quo. Neppure Abel, che non cerca vendetta ma solo di poter proseguire lungo la linea che ha immaginato per se. Senza alcuna reale contrapposizione tra bene e male, ma con una suddivisione degli spazi che genera inquietudini.