Quelli di Nacer Khemir sono film-sogno dove il deserto – la sua visione, la sua percezione – è l’elemento imprescindibile, il luogo espanso da percorrere e abitare fisicamente e mentalmente. Accade fin dall’esordio nel lungometraggio del cineasta tunisino, risalente al 1984, Les baliseurs du désert (Venezia Classici). L’opera che, per prima, teorizza questo viaggio, a partire dalle prime immagini, dal camera-car impossibile fra le dune, già falso movimento dentro quello spazio della mutazione. La polvere del deserto vela i vetri dello scalcinato autobus nel suo viaggio senza meta, avvolge i volti senza età dei passeggeri, si insinua fra gli obiettivi e le lenti della macchina-cinema. La visione è fin da subito contaminata, il doppio percorso fantastico/realistico trova qui la sua espressione più profonda. Si attraversano “deserti senza più traccia di strada” alla ricerca di un luogo (in)esistente, un villaggio dove il protagonista (un maestro, incontrato sempre in quella prima sequenza sul bus, interpretato dal regista, proprio a voler significare ancor più la sua magnifica ossessione) si reca per insegnare ai ragazzi. Ma non ci sono più ragazzi fra le mura, nei cortili, nelle stanze di quella fortezza, circondata dalla sabbia, che appare improvvisamente allo sguardo del maestro, dopo che un’altra apparizione inattesa si era manifestata ai suoi occhi (e a quelli dello spettatore). Gli uomini che vivono lì (spuntati dal fuoricampo, nati dal deserto) lo attorniano e lo spingono all’interno del villaggio, ovvero di un luogo svuotato di vita e reso a sua volta desertico, in cui sopravvivono simulacri di attività viste (la bottega del barbiere) o dette (lavare i panni, portare da mangiare).
Le persone che abitano la fortezza sono esseri senza tempo ripresi nell’atto di ripetere gesti: un vegliardo cieco custode della memoria, di fatti antichi su cui pesano maledizioni; un anziano che scava nel deserto alla ricerca di un tesoro; un bambino curioso di scoprire leggende, di ritrovare la bellezza persa del villaggio, dei suoi giardini, e che senza sosta attraversa, correndo, gli spazi della fortezza e i suoi dintorni, rubando segreti, evocando presenze fantastiche da un pozzo, scrivendo sulla sabbia, con passi che si fanno danza – gli stessi movimenti sensuali del film. Tutti hanno lo sguardo rivolto altrove, al deserto dove i giovani sono spariti da tempo, costretti a vagare, a smuovere le sabbie, rubati alle famiglie per una promessa non mantenuta nel passato. L’immagine di sogno che li mostra erranti e indistinguibili percorre silenziosa il film, si presenta – anch’essa senza preavviso – come inserto magico (complice anche il montaggio sensuale di Moufida Tlatli, l’artista tunisina che, prima di passare alla regia, ha scritto e montato molti capolavori della nouvelle vague araba), come prolungamento dei discorsi e dei gesti delle persone del villaggio che sono comunque condannate a rimanere in quel posto. È un’immagine onirica molto vicina a quella iniziale, offuscata e resa più libera dagli strati di polvere che la intaccano. Il tempo e lo spazio non esistono più. Nel deserto si cammina, si fugge, ci si perde (finirà nelle sue onde anche il maestro, tras/portato in mezzo alla sabbia da un’altra presenza fantastica, evocata questa volta dalle pagine di un libro magico). È un luogo bello per morire e per fantasticare, le sue dune nascondono altri corpi, altri set da popolare e svuotare. Khemir restituisce la fascinazione e il mistero, l’attrazione e la follia del deserto, il clima di una favola da raccontare, che si ascolta e guarda, che ciclicamente si ripete, intricata e fluidissima (a meno di non stare dalla parte del maresciallo arrivato al villaggio per cercare a tutti i costi una spiegazione logica agli avvenimenti). È la favola che ha per protagonisti i figli del deserto. È la leggenda che sposta Les baliseurs du désert verso il mondo incantato delle Mille e Una Notte, sognato dal bambino che alla fine deciderà di mettersi in viaggio, ovvero di sognare ancora, di lasciarsi penetrare negli occhi un altro sconfinato set, il buio della notte sul quale termina il film e che lo proietta ancor più nel territorio dell’immaginazione, negli spazi mitici (di Grenada, di Cordoba) dell’Andalusia.