A Venezia81 l’arte e l’inquietudine di Miyazaki nel documentario Spirit of Nature, di Léo Favier

Ormai storicizzato come maestro e modello per l’animazione mondiale, Hayao Miyazaki resta un personaggio fertile negli spunti che tanto la sua vita quanto la sua carriera sono in grado di restituire e che ispira perciò sempre nuovi tentativi di esplorazione. È ormai numerosa infatti la produzione di saggi critici, volumi-intervista (in Italia i due Dove torna il vento per Dynit, all’estero i più corposi Starting Point e Turning Point) e documentari che lo pedinano mentre realizza le sue opere più recenti, da Il regno dei sogni e della follia di Mami Sunada (su Si alza il vento) a Never-Ending Man: Hayao Miyazaki, di Kaku Arakawa, sul processo creativo che poi lo avrebbe portato alla decisione di realizzare un nuovo lungometraggio dopo l’annunciato ritiro (quello che sarebbe poi diventato Il ragazzo e l’airone). Il nuovo Miyazaki, l’esprit de la nature / Spirit of Nature di Léo Favier, presentato a Venezia 81 nella sezione Classici e prodotto da Arte, si fa carico dell’excursus storico sull’intera produzione del Maestro, con particolare focalizzazione non tanto sugli aspetti creativi e tecnici che lo hanno reso un grande innovatore, quanto sulle tematiche che riverberano i drammi della Storia e le grandi questioni dell’attualità. L’approccio è lineare e segue la carriera dell’autore dagli esordi, partendo con l’infanzia in periodo di guerra alla folgorazione provocata dalla visione de La leggenda del serpente bianco, di Taiji Yabushita, prodotto da quella Toei Animation in cui poi sarebbe andato a lavorare, abbandonando il proposito di dedicarsi alla sola realizzazione di manga.

 

 
Da lì si passa ai primi insuccessi commerciali (il celebre esordio con Lupin III: Il castello di Cagliostro, oggi amatissimo) fino ai trionfi culminati nell’assegnazione dei maggiori premi internazionali. Il tutto è contrappuntato dall’attenzione per i temi ambientali e dalla tendenza dell’autore a voler trasmettere i valori fondamentali della convivenza uomo-natura alle nuove generazioni. Sempre presente è comunque sullo sfondo l’altro grande tema della guerra e dell’attitudine umana all’auto distruzione: il racconto di come l’artista sia passato dall’anonimato al grande successo procede così di pari passo con la disillusione dell’uomo che sperava di poter cambiare il mondo con l’animazione, salvo rendersi conto che non può esserci redenzione per un’umanità sempre pronta a ripetere i suoi errori. Particolare enfasi hanno così le opere in cui questa crisi produce un approccio meno accomodante e più sofferto ai temi della devastazione, come Principessa Mononoke, paradossalmente anche il film che più è stato seminale per il suo riconoscimento internazionale.

 

Princess Mononoke (1997)

 
Il documentario procede lungo questa doppia direttrice della celebrazione e della crisi umana (che per fortuna non si fa mai creativa), attraverso bei reperti d’epoca in cui vediamo il genio al lavoro e interviste a vari esperti di questioni ambientali o dell’opera di Miyazaki, come Susan Napier, celebre anche da noi per il volume Mondomiyazaki: una vita nell’arte (edito anch’esso da Dynit). Nell’accompagnare il film a Venezia, Favier ha rimarcato l’attento lavoro di controllo delle informazioni in esso contenute, condotto di concerto con lo stesso Studio Ghibli. Se questo determina da un lato una certa “chiusura” del racconto, molto focalizzato sui punti nodali della sua indagine e della carriera di Miyazaki, senza particolari sorprese o aperture a improvvisi detour, d’altro lato la trattazione si distingue per la lucidità con cui i temi e i riferimenti emergono nel corso della trattazione, lasciando emergere un artista che ha perseguito la sua visione senza compromessi. Non il documentario definitivo sul tema, ma un valido compendio per cultori e non solo.