Quattro stagioni nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, viste da Vermiglio, ultimo paese della Val di Sole nel Trentino, che per Maura Delpero è un luogo dei ricordi, il borgo da cui veniva suo padre. C’è perciò un padre anche nel suo secondo lungometraggio di finzione, Vermiglio appunto, Leone d’Argento Gran Premio della giuria a Venezia81. È un maestro delle elementari, severo patriarca di una famiglia che conta una decina di figli (alcuni li vedremo nascere nel corso della storia), totemico nella magnifica stolidità con cui lo impersona un mimetico Tommaso Ragno e che costituisce il fulcro di un sistema di valori e di regole del vivere civile su cui l’intera comunità rurale fonda ruoli e apparenze. E c’è, come si citava, anche la guerra, nella figura di due soldati disertori che hanno trovato asilo nel paese: uno dei due si innamora di Lucia, la figlia maggiore della famiglia e finisce per sposarla, ma la fine del conflitto porterà delle conseguenze anche in quel rapporto. Sull’intreccio delle relazioni sentimentali, delle vite che nascono e delle famiglie che si formano, il lavoro della Delpero segue il suo nucleo allargato con sguardo particolarmente empatico verso le tre figlie (una adulta, una che si affaccia alla pubertà e una bambina): partecipa delle loro scaramucce e della curiosità della giovane età, così come delle pulsioni ribelli, che passano tanto per l’insofferenza verso l’autorità paterna, quanto per la scoperta del corpo e dei suoi cambiamenti, da vivere anche alla luce dei divieti imposti dalla fede. Tutto è raccontato con una levità che partecipa delle atmosfere rurali del posto, ma con una lucidità che mantiene sempre aperta una prospettiva critica in grado di emergere nella parte finale.
In questo senso, se Vermiglio sembra allinearsi alla più recente tendenza a un cinema regionalista (con tanto di uso esplicito del dialetto) e realista (il cast è in parte composto da non professionisti), l’approccio rifugge dalla deviazione nel magico o nel folklore che caratterizzava esempi pure eccellenti come Piccolo corpo di Laura Samani o Re Granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. L’autrice mantiene al contrario la sua focalizzazione sui personaggi, sui loro drammi e desideri, permettendo lo slittamento finale che rende il racconto su un padre una illustrazione sulle spinte a uscire dalla casa di famiglia, che porteranno le tre ragazze a cercare ognuna il proprio posto nel mondo. Il valore dell’opera di Maura Delpero sta nella capacità di tenere ben presente il punto d’arrivo della sua trattazione, ma senza mai recedere da una ideale naturalezza del racconto, capace per questo di mettere d’accordo l’omaggio all’epoca dei ricordi e la sensibilità più moderna del ritratto d’insieme, fatto di figure vivide e vere. In tal senso, l’avvicendarsi degli eventi e la loro problematicità sono trattati con lo stesso incedere delle stagioni: se nuclei si separano, infanti muoiono e altre vite nascono, tutto rientra in un ordine dove il dolore è sempre stemperato dalla dolcezza e la partecipazione alle vite dei personaggi resta sempre genuinamente contagiosa.