Nella semplicità formale del documentario di Yu Haibo e Yu Tianqi Kiki Alla ricerca di Van Gogh (distribuito da Wanted) è sotteso un importante discorso politico (oltre che culturale), che fa capolino a oltre metà film e costringe lo spettatore a ripercorrere idealmente tutto ciò che ha visto e appreso (i personaggi, i loro dialoghi, l’esposizione del loro lavoro e delle loro vite) sotto un altro punto di vista. Quello di un sistema costruito sullo sfruttamento dell’immagine, che si rivolta contro i suoi stessi ideatori, inconsapevoli e ingenui “operai”. Andiamo con ordine. Nel quartiere di Dafen, nella metropoli cinese di Shenzhen, un esercito di pittori lavora incessantemente per fabbricare centinaia di riproduzioni dei quadri di Van Gogh, molto richieste sul mercato internazionale. Zhao Xiaoyong, ex contadino divenuto pittore, ne è il portavoce. Nei primi colloqui esalta le sue doti imprenditoriali, perché gli ordini continuano ad aumentare e provengono soprattutto da Amsterdam, la città di quel Vincent Van Gogh che rappresenta per lui un mito. E così dipinge quasi a memoria i girasoli, gli iris, il cielo stellato, gli autoritratti del pittore olandese che soffriva il disinteresse di quell’epoca per la sua arte. Zhao ama la pittura ma non la conosce e, soprattutto, dalla prospettiva limitata del suo atelier (due stanze, dove vive e lavora con moglie, fratello e cognato), non può respirare il clima a lui necessario per sviscerare il significato di ogni pennellata. Sa solo che si deve lavorare in fretta perché da Amsterdam reclamano le copie e la sua famiglia ha bisogno di soldi.
In questa parte i due registi si dilungano sul ritratto di Zhao, la ripetitività del lavoro e della sua vita. Ci si sente in trappola in questo rumoroso quartiere cinese, oppresso dai palazzi e da un senso di straniante isolamento. Non solo perché le richieste interne di queste copie è calato enormemente negli anni Novanta, ma anche perché gli unici compratori ora sono paradossalmente gli europei e chi ci lavora non sa come vengano trattati i loro dipinti in Europa. Per questo il vaiggio ad Amsterdam del protagonista è un passaggio necessario: si deve confrontare con la realtà, i colori veri e i paesaggi che hanno ispirato Van Gogh, certo, e sarà una tappa fondamentale e non senza conseguenze, ma soprattutto la verità sulle sue opere. E d’improvviso Zhao si trova di fronte alla più grande crepa del sistema: non arte, ma merce, non una galleria, ma un negozio di souvenir, nessuna creatività ma solo business. Questo il meccanismo che i suoi dipinti alimentano, questa la metafora malinconica che sottende il film: la crisi di due mondi e di due identità culturali, quella di un Occidente che ha ormai mercificato tutti i suoi tesori, quella dell’Oriente, alla deriva di un cambiamento troppo rapido e troppo radicale. Yu Haibo e Yu Tianqi Kiki, capaci e affermati fotografi, sanno ritrarre Zhao in questo spaesamento. La loro macchina da presa si avvicina con delicatezza e si insinua nelle sue ambizioni mai dette. Non si torna da un luogo tanto lontano senza ferite, ma quella del pittore/contadino si tradurrà in un vitale nuovo inizio, la presa di coscienza degli ingranaggi che lo stavano stritolando e il desiderio di farsi da parte per continuare su una nuova strada. E allora torna nel villaggio d’origine per dipingere l’anziana zia, il vicolo della sua casa, il cielo dal vero, usando una tecnica che da Van Gogh si fa sempre più personale. Viaggio interiore ancora più profondo, che sa penetrare silenziosamente nel sentimento.