Alla SIC di Venezia80 la natura classica e l’anima moderna del vampiro: Le Vourdalak, di Adrien Beau

Per sua stessa ammissione, la motivazione che ha spinto Adrien Beau a trasporre nuovamente La famiglia del Vurdalak, di Aleksej Tolstoj – già portato al cinema splendidamente da Mario Bava ne I tre volti della paura e poi da Giorgio Ferroni con La notte dei diavoli – è nata dalla voglia di confrontarsi con un archetipo vampirico pregresso (e dunque più libero) di quello offerto dal Dracula di Bram Stoker (il racconto di Tolstoj precede infatti quello di Stoker di quasi sessant’anni). L’idea del recupero di una narrazione distante e in larga parte ormai fatta dimenticare dai successivi aggiornamenti del canone, risalta non a caso nell’intero approccio alla materia. Formatosi come artista visuale e designer, collaboratore frequente di Agnès B., Adrien Beau tenta infatti di recuperare un senso materico e realistico della messinscena orrorifica, privilegiando ai chiaroscuri di matrice espressionista una visualità naturalista e volutamente “povera”, a metà strada fra le atmosfere di Jean Rollin e quell’immanenza del set tipica dei migliori sceneggiati televisivi nostrani (per restare a un possibile riferimento baviano, si pensi alle scene di vita contadina nel suo ultimo gioiello, La Venere d’Ille).

 

 

Proprio in un simile scenario, offerto stavolta dai boschi esteuropei, si consuma quindi l’avventura di Jacques Antoine Saturnin d’Urfé, delegato del re di Francia, che in una notte di tempesta trova rifugio nell’abitazione dell’anziano Gorcha, accolto dai suoi figli Jerome, Piotr e Sdenka. Il capofamiglia però è lontano, in viaggio per combattere i turchi, e ha intimato di non aprirgli la porta di casa se tornerà dopo sei giorni, perché in quel caso vorrebbe dire che è diventato un Vourdalak, una creatura che si ciba del sangue dei suoi familiari. Ma quando l’uomo torna esattamente allo scadere del tempo previsto, il dubbio serpeggia: è ancora lui o il male lo ha già posseduto? Memore dei suoi trascorsi teatrali, Beau azzarda la scelta di far interpretare Gorcha a una marionetta da lui stesso animata e doppiata, per mantenere coerenza con l’approccio pre-digitale scelto (il film è anche girato in pellicola 16mm), creando così un effetto straniante che però è attinente alle tematiche che soggiacciono a una trasposizione contemporanea.

 

 

L’alterità esibita del “puppet”, più che rappresentare soltanto un omaggio estemporaneo a una teatralità propria del genere nei suoi decenni passati, diventa infatti propedeutica all’ostinazione con cui i familiari non vogliono “vedere” la trasformazione ormai in atto nell’amato padre. Abilmente, Beau costruisce il suo film sul doppio registro della visualità d’antan che rivela così un’anima moderna: quella antipatriarcale attraverso cui il racconto della strage perpetuata da Gorcha si fa metafora della natura punitiva di un sistema familiare che non ammette alcuna messa in discussione. L’omosessualità repressa di Piotr, il senso del magico di Sdenka – vista come un personaggio che ha perso la ragione dopo essere stata ripudiata dal compagno – emergono dunque come tratti di modernità che aprono crepe in un modello repressivo, che in ragione di ciò scatena tutta la sua virulenza. Rispetto alla malinconia da senso dell’infelicità immanente del prototipo baviano, Le Vourdalak si carica così di un senso di protesta che rende l’esperimento saggiamente distante da modelli altrimenti irraggiungibili e gli permette di vantare un senso proprio, in grado di rendere il risultato interessante. E di rivitalizzare con coerenza un testo altrimenti considerato come un mero reperto del passato.